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Flora e l’orfismo della parola

Rinaldo Froldi



Secondo questo critico la parola è poeticità elementare; e la forma essenziale in cui si concreta l'«humanitas» dell'uomo; non è natura ma coscienza.





Ho trovato, nonostante l'ora calda del pomeriggio estivo, Francesco Flora nel suo studio all'ultimo piano di una casa che incombe su di un viale frequentato e rumoroso, in piena attività di lavoro, fra i suoi libri, seduto davanti alla piccola macchina da scrivere.

Qui, nella medesima stanza, m'ero incontrato con Flora alcuni mesi innanzi, proprio alla vigilia della sua partenza per Bologna, dov'egli si recava ad assumervi la cattedra universitaria di letteratura italiana.

Spontaneamente perciò, ritrovandomi con lui, dopo il primo cordiale saluto, il discorso si è fermato su quell'avvenimento che senza dubbio va annoverato fra i più significativi della vita dello scrittore. La nomina a Bologna venne quasi improvvisa: verso la fine dell'anno scorso, mentr'egli si trovava per un periodo di riposo a Bergamo.

Flora è lieto della designazione a Bologna che è la città che ha l'orgoglio gentilizio d'essere la più antica sede d'Università italiana e che conserva una vita universitaria con un suo preciso significato nella vita dell'intera città.

Salendo la cattedra che s'ornò del magistero del Carducci e del Pascoli, Francesco Flora ha tenuto una prolusione sull'Ufficio delle lettere ed il metodo della critica che è come una sintesi di motivi estetici che da tempo si venivano chiarendo nel suo pensiero e che più complessa presentazione avranno nel volume che fra poco uscirà presso l'editore Cappelli con un titolo suggestivo: Orfismo della parola.

Invito Flora a precisarmi il contenuto della sua Prolusione ed egli mi accontenta, seduto dietro la scrivania, la testa argentea alta sulle spalle, egli parla con voce calma ed accompagna con sguardi vividi d'intelligenza la sua illustrazione, con una specie d'intima gioia perchè ciò che espone è un punto d'arrivo dopo un faticoso cammino, una verità che sa lo sforzo ma che ora di questo può essere dimentica.

Per me (e l'ho sostenuto nella Prolusione che costituirà la prima parte del mio libro. Orfismo della parola) la parola è poeticità elementare, è la forma essenziale in cui si concreta l'humanitas dell'uomo; non è cioè mera vocalità ma sempre teoresi, non natura ma coscienza, vale a dire dominio di natura. Come tale la parola è alla base di ogni attività creatrice (poesia) e riflessa (filosofia).

La parola poetica vive nella coscienza di chi la fa sua, vive cioè nella critica. Colui che canta non fa la storia del canto: la critica è necessaria. Ecco l'ufficio del critico che accanto al poeta forma quella civiltà delle lettere in cui si riconosce l'umanità nella sua vera espressione.

Chiedo a Flora di precisarmi ancora questo suo concetto della parola riferendosi anche al suo volume in corso di pubblicazione che possiamo dire costituisca una vera e propria Estetica della parola.

Il mio libro al cui ordinamento insolito ho dedicato questi ultimi mesi di lavoro e di cui ora sto rivedendo le bozze, contiene una serie di scritti in parte editi ed in buona parte inediti, tutti volti a giustificare il punto d'arrivo della poesia e della critica: sono tanti motivi, osservazioni, citazioni, aforismi, tutti commentati. Le dirò che mi sono accorto che, nella elaborazione dei concetti, andavo scoprendo una vocazione letteraria antica: andavo chiarendo una verità che avevo intuito sin dal momento dei miei primi studi ritrovandomi in quel discorso interiore continuo di cui parlava l'antica filosofia greca: un discorso che include tutte le arti e tutte io ho visto nel senso della comune verbalità essenziale.

In verità l'uomo che pensa come uomo, non esce mai dalla parola, neppure nel sogno: -Non si pensa se non parlando -scrisse il Leopardi: pensiero è parola ed a ragione si potrebbe dire: loquor, ergo cogito et sum. Dio stesso non può essere pensato che nella parola.

Questa concezione sfiora evidentemente l'universale vocalità indiana e s'avvicina al senso della Bibbia ove si narra d'Adamo che pose il nome alle cose, creò cioè le parole facendo coincidere la realtà vocale alle cose.

Possono forse darsi cose senza parole? Sarebbero ineffabili e non sarebbero neppure pensate.

Ma questa concezione si collega pure con il logos greco e col motivo dell'orfismo: il canto appare il punto ultimo che movendo dalla poeticità elementare e svolgendosi fonda la civiltà umana: il mito di Orfeo che ammansa le fiere, altro non significa che la fondazione della civiltà sulle barbarie così come quello d'Orfeo mediatore fra il regno dei vivi e quello dei morti, esprime il valore eterno della parala che fa vivere il passato, altrimenti destinato a perire.

Flora si indugia nel chiarirmi parecchi aspetti particolari del suo pensiero e mi indica i singoli capitoli del suo libro, sfogliando -sotto i miei occhi- le bozze di stampa.

Si sofferma particolarmente su un motivo che è caro a lui, autore della Civiltà del '900: la macchina, specie nel suo rapporto con l'uomo.

«Bergson ha rinnovato l'idea antica della macchina quando ha distinto l'uomo dagli altri esseri per la capacità che ha di crearsi il proprio strumento di lavoro. Orbene ciò è possibile attraverso la memoria: che è tutta ordinata dalla parola: soltanto così la macchina può sorgere.

E così è per ogni attività di pensiero puro od applicate, filosofico cioè o scientifico.

Nel campo estetico ogni posizione è legittima purchè ammetta il valore teoretico della parola: ciò che non è legittimo è il concepire la parola come inconscio: così il surrealismo non ha giustificazione.

La famosa frase di Marsilio Ficino: «Non disputant cum Apolline Musae sed canunt», è esatta se la riferiamo al diverso valore della parola: l'inventivo (che dà la poesia) e lo storico (che lascia posto alla critica ed alla filosofia).

Io sono convinto -continua Flora- che alla soluzioni finale della critica che è il nostro possesso dell'opera d'arte altrui, si arriva per vie mediatissime e molte, ma non bisogna perdere mai di vista il fine che è unico ed esclusivo e confonderlo con i mezzi che possono essere innumerevoli. Assoluta è l'importanza della filologia come necessario punto di partenza per ogni giudizio critico, ma la filologia non può chiudersi in sé stessa pretendendo essere critica.

Si consideri, ad esempio, il problema delle varianti al quale hanno dedicato molto tempo parecchi filologi europei: io ritengo che ciò che al critico, stretto al testo, deve importare è solo la versione poetica definitiva e che egli non deve cercare elusioni con l'apparenza di chi sa quale attenzione che invece un modo di sviarsi dall'essenziale. L'ultima stesura annulla le precedenti, e le varianti per quella non contano: il poeta le ha dimenticate. Allo stesso modo il fatto poetico ha in sé tutti gli elementi per il giudizio; il resto (psicologia dell'autore, ambiente, formazione letteraria ecc...) è solo propedeutica. Solo avendo preciso il suo fine e rispettandolo, la critica potrà essere verità e contribuirà all'umanità dell'uomo formando la coscienza del suo vivere civile.

Ciò che non è verità si suole chiamare menzogna ma la menzogna -a ben guardare- si risolve sostanzialmente in antiparola, cioè in un uso disumano della parola.

Soddisfatto così ampiamente il mio desiderio di conoscere le linee essenziali del suo lavoro estetico, Flora passa ad illustrarmi la sua più recente attività critica.

Fra poco avrà portato a termine con il «Novecento» la sua vasta Storia della Letteratura italiana. Il «Novecento» -si sa- è un tema difficile e scabroso: chiedo a Flora quali direttive lo hanno guidato nella composizione.

Il «Novecento» si unisce strettamente con il precedente volume dell'Ottocento: anzi le dirò che lo scopo principale del nuovo volume è quello di dare onorata sepoltura a certi scrittori dell'Ottocento che non ebbero precedentemente compiuta trattazione.

Quanto agli autori del Novecento la mancanza di una precisa prospettiva storica, la presenza di scrittori in piena attività e la conseguente loro possibilità di sviluppo, sono elementi che mi hanno indotto a concentrare al massimo la trattazione.

Altrove io ho dedicato e continuerò a dedicare ampio studio agli scrittori contemporanei in saggi che vado pubblicando sulla rivista Letterature moderne. Ma se per i contemporanei avessi adottato il criterio già seguito per i classici di parecchi secoli, avrei dovuto dedicare ai soli contemporanei molti più volumi di quanto non abbia fatto per circa sei secoli della letteratura passata.

Ricordo a Flora la sua attività di presidente della Associazione Artisti d'Italia e gli chiedo notizie sulla stessa. Mi annuncia che sia per l'impossibilità di seguirla attivamente per il trasferimento a Bologna, sia per la convinzione che in certi organismi è quanto mai opportuno provvedere ogni tanto a rinnovare le persone che vi occupano funzione direttiva, ha dato irrevocabili dimissioni.

Non è stato un lavoro indifferente questo mio che ha contribuito a dare unità ad una associazione che allineava i più bei (ma anche i più diversi nomi dell'arte italiana, ed è stato un lavoro che ho compiuto con piacere perché io credo nell'utilità delle associazioni d'artisti sul tipo di questa da me fino ad ora presieduta: anzi penso che dovrebbero essercene altre.

Continuerò invece a dirigere la rivista Letterature moderne che, sollecitata a diventar mensile, potrebbe anche accogliere l'invito, se io avesi più tempo. Così Francesco Flora all'attività di professore unisce quella di diffusore della nostra cultura (Letterature moderne è rivista assai apprezzata all'estero) in stretto contatto con le letterature d'altri paesi: altra palpitante realtà del suo umanistico magistero che non conosce frontiere che nel culto della parola-pensiero riunisce tutti noi uomini.





imagen del texto original.

«La Fiera Letteraria», núm. 34-35-36 (6 settembre 1953), página 1

imagen del texto original.

«La Fiera Letteraria», núm. 34-35-36 (6 settembre 1953), página 2



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