Se il romanzo, la
narrativa in genere, hanno assunto per la fisionomia letteraria di
Asturias un significato così preminente da polarizzare su di
essi, quasi esclusivamente, il giudizio dei critici, l'attenzione
dei lettori, la poesia non è stata in realtà un
capitolo minore nell'attività creativa dello scrittore
guatemalteco, ma piuttosto un esercizio intimo,
«recatado». Benché, in definitiva, parlare di
poesia, per Asturias, voglia dire abbracciare tutta la sua opera,
in quanto anche la narrativa e il teatro sono essenzialmente
permeati di poesia. Essa si manifesta, infatti, in quell'afflatto
lirico-narrativo-drammatico con cui l'artista rivive il suo mondo,
nell'«indianità» non settaria, non motivo
contingente, ma parte essenziale dello spirito.
Nella poesia,
quella in versi, intendo, tale afflatto lirico, tale aderenza a un
mondo del quale Asturias si sente parte integrata e integrante
è quanto di più evidente. La sincera adesione
dell'artista alle vicende della sua gente, alla viscera della sua
terra, gli permette di apportare alla poesia una
sensibilità, una freschezza di ritmi e di colori del tutto
inediti, non tesi al pittoresco, ma a sottolineare piuttosto, per
contrasto, in una permanente nota lirica, le inquietanti tinte
della tragedia, al disopra della quale innalza un messaggio di
speranza. Il continuo intersecarsi dei piani temporali -passato e
presente- afferma una prospettiva certa di riscatto per il
futuro.
Le radici
autoctone, i legami profondi con l'antica poesia precolombiana,
sono particolarmente vivi nella poesia di Miguel Ángel
Asturias. La coscienza di un momento diverso nella condizione della
sua gente, che caratterizzò il passato, si proietta sul
tempo a venire. La poesia mitica del Popol-Vuh, le antiche
concezioni cosmogoniche, operano in profondità nello spirito
guatemalteco, e Asturias ne sente tutta la suggestione. Egli rivive
con acuta sensibilità la spiritualità maya; anche per
lui, come per gli antenati remoti, tutto acquista una vita segreta,
che solo attinge chi ha l'animo puro. Inizia, allora, un intimo
dialogo tra l'uomo e le cose, modo, in sostanza, per stabilire una
distinzione morale tra oppressi e oppressori. E come presso le
antiche civiltà meso-americane solo il
«predestinato» poteva assumere la parola per la
collettività, divenendo di essa l'interprete sacro,
così Asturias si trasforma nel «Gran Lengua»
della sua gente, della quale nella poesia rivela non solo la
condizione dolente, ma le nobili aspirazioni e la ricchezza
spirituale.
Nel prologo a
Sien de alondra, che raccoglie la somma prima
dell'Asturias poeta, Alfonso Reyes dichiara di scoprire nei suoi
versi, con intuito chiaro, una nota positiva e confortante intorno
all'esistenza e all'avvenire della poesia in America, e sottolinea,
in particolare, nel verso, la nota di costante sincerità. Il
Reyes vede sorgere tale poesia dalle visioni più immediate,
fondarsi sulle emozioni più permanenti, in una traiettoria
che, partendo da accenti modernisti, attraverso le esperienze
dell'avanguardia, approda ai moduli e ai ritmi caratteristici
dell'antica poesia precolombiana, di cui faceva propri taluni mezzi
stilistici, come l'iterazione e il parallelismo, il simbolismo e la
metafora, aggiungendovi la novità della
jitanjáfora, che permette di evocare atmosfere
eroiche e sacre, di profonda suggestione.
Sien de
alondra, che Asturias pubblica a Buenos Aires nel 1949,
raccoglie i frutti di una lunga stagione poetica, che risale al
1918. Il libro fu successivamente ampliato nell'edizione
madrileña delle Obras escogidas (1954), comprendendo la produzione
poetica fino al 1954 e gli Ejercicios poéticos en forma de soneto sobre temas
de Horacio.
Dal 1954, pur
dedicandosi prevalentemente alla narrativa, Miguel Ángel
Asturias non tralascia la poesia. Si può dire, anzi, che in
alcuni momenti essa assuma un rilievo non inferiore, nelle
intenzioni del poeta e per il valore intrinseco, alla sua opera in
prosa. Diverse poesie egli pubblica su varie riviste, riunite
più tardi, nel 1968, in Parla il «Gran Lengua», con
altre composizioni delle epoche precedenti. Nel 1965 la
pubblicazione di Clarivigilia primaveral dà alla poesia
ispanoamericana un'opera di valore insostituibile; essa rappresenta
lo sforzo di maggior significato di Asturias in questo settore
della sua creazione artistica, e il momento di più alta
ispirazione e originalità, nell'adesione, personalissima, al
mondo delle antiche cosmogonie, ma con un'incidenza sul momento
attuale di estremo rilievo. I risultati artistici appaiono
sorprendenti anche nell'ambito della forma, del suono e del colore.
La meraviglia del mondo meso-americano sorge nella sua pienezza,
quale paradiso non gualcito dalla guerra degli uomini e del
tempo.
L'«indianità» di Miguel Ángel Asturias
è da intendersi, nella sua traiettoria poetica, come
adesione spirituale al passato mitico e alle sue forme; di tutto
ciò egli afferma la validità nel tempo, quindi anche
per l'attualità, un presente che la realtà mostra
amaro e doloroso, colmo di ingiustizie, ma non cristallizzato in
senso negativo. L'impegno che domina lo scrittore nell'opera in
prosa, manifesta nella poesia una più scoperta
preoccupazione per il proprio paese, il Guatemala. La passione per
la patria asservita domina i versi del poeta; l'epica grandezza di
«Tecún-Umán» si definisce meglio alla
luce di un oggi miserabile, quello denunciato in «Alimentos» e nella
«Marimba tocada
por indios». La magia di un mondo che sembra affermare
sul tempo un privilegio naturale diviene più suggestiva, per
contrasto, nella persistente nota di tristezza con cui la poesia di
Asturias fissa la situazione bruciante della patria in catene. Ma
il messaggio che il poeta reca alla sua gente, al disopra
dell'amarezza della realtà contingente, si concreta nella
prospettiva dell'avvento definitivo della libertà e della
giustizia.
Per tal modo
Miguel Ángel Asturias adempie alla funzione che ritiene
propria dello scrittore, e del poeta, quella di denunciare per
spronare, di sostenere per non far soccombere nella rassegnazione.
La forza per questo tipo d'azione egli la trova nella relazione
intima con le cose. La poesia di Asturias è sempre raccolta,
anche quando diviene epica e civile. Il suo verso, scorrevole,
musicale, ricco di onomatopee e di colore, ma rifuggente dal
folclore e dall'esotismo, è soprattutto ricerca di
comunicazione.
Nei Sonetos de Italia questa
ricerca raggiunge esiti particolari. La poesia della breve raccolta
scaturisce da un soggiorno del poeta a Venezia, nel periodo
1963-1964, momento assai difficile per Asturias, esule e ramingo.
Nella presentazione che ne feci nel 1965, proponevo un titolo
più idoneo e più logico, Sonetos venecianos. Miguel Ángel
Asturias canta, infatti, nei quattro sonetti, una Venezia della
quale coglie sottilmente l'inquietante messaggio. La città
lagunare è vista dal poeta in una sognante e irripetibile
geografia, carica di storia e di splendore, nella presenza di un
passato meraviglioso e defunto che muove a profonda meditazione.
Asturias canta, perciò, Venezia nella sua bellezza
incomparabile, nella magnificenza irreale delle sue architetture,
nella pittura luminosa del Carpaccio, anch'essa, come la
città, richiamo insistente ad epoche passate. «Aquí todo
es ayer, el hoy no existe»; un ieri
favoloso, denso di mistero, che confermano in suggestioni d'enigma
anche gli animali più apparentemente insignificanti: nella
loro presenza si riflettono echi di lontani splendori, di esotiche
magnificenze, un mondo addormentato, incantato, nel quale rivive,
per immediato riferimento dello spirito, quello più
intimamente sentito da Asturias, le città maya con il loro
enigma, e, sulla lezione del tempo, la distesa presenza della
morte.
Nei Sonetos venecianos si
percepisce chiaramente come la città italiana scavi nel
profondo del cuore. La grandezza antica di Venezia, la fantastica
sospensione dei palazzi, tra acqua e cielo, riconduce Miguel
Ángel Asturias al centro spirituale del suo mondo, fisso nel
tempo, presenza continuamente operante.
Dopo il Premio
Nobel, lo scrittore guatemalteco torna a Venezia, in altre
condizioni spirituali e con diverse prospettive per il futuro, per
ricevere dall'Università veneziana la laurea
«honoris causa», e di nuovo
sente l'antica suggestione. Tre altri sonetti vengono ad
aggiungersi, in tale occasione, ai precedenti. Composti nel maggio
1972 essi ripresentano, in altri accenti, il clima pensoso e
incantato dei precedenti. Di Venezia Miguel Ángel Asturias
non può cantare che l'unicità e la meraviglia,
deducendo una lezione etica che si proietta sull'inquietante ed
eternamente irrisolto problema dell'uomo e delle cose di fronte al
limite.
Otras ciudades, pero
no Venecia
Otras ciudades, pero no con
viento
en los palacios para hacerse al
mar.
Anclada apenas en la tierra,
siento que esta ciudad está
para zarpar.
Otras ciudades, pero no con
tiento
de espejos, y neblinas, y
radar
de murciélagos que oyen
movimiento
de puentes en que todo es
navegar.
Otras ciudades, sin la
peripecia
de este ir soñando un viaje
sin escalas,
otras ciudades pero no con
alas
de piedra blanca y mármoles
en vuelo,
reflejo de ciudad entre agua y
cielo,
otras ciudades, pero no
Venecia.
Venecia, la
cautiva
Aquí cerca no hay, tampoco
hay lejos.
Lo que parece cerca, el agua
vieja
lo vuelve eternidad y en los
reflejos
se aproxima la imagen que se
aleja.
¿De qué es la
realidad en los espejos?
Y los palacios entre ceja y
ceja
de puentes como acentos
circunflejos,
¿de qué son cuando el
agua los refleja?...
Aquí todo es ayer, el hoy no
existe,
huye en el agua, corre en los
canales
y va dejando atrás lo que
subsiste,
fuera del tiempo real, en las
plurales
Venecias que nos da la
perspectiva
de una Venecia sola, aquí
cautiva.
Los gatos de
Venecia
De vidrio veneciano uñas en
nieve,
en oro o en penumbra. Blancos
gatos
de ojos de Nilo, negros de andar
breve
y de ámbar de
relámpago en retratos
tomados al magnesio que luz
llueve,
los gatos amarillos, arrebatos
da esta ciudad que en
góndolas se mueve
entre gatos y gatas que hacen
tratos.
En góndolas de
máscara gatuna
que erguidas, sin orejas y con
dientes
de mandolina, corren tras la
luna,
bola de lana que se desovilla
bajo los espinazos de los
puentes
enarcados de una a otra
orilla.
Carpaccio
Dejadme en un Carpaccio, todo es
pobre
fuera de su pintura, de sus
gozos...
¿Cómo aceptar que el
alma se recobre
de irrealidad tan real hecha de
trozos
del sueño de Orsola al
dragón de cobre,
del perrito a los santos
religiosos,
que si llueven palacios, llueven
sobre
Venecia, Carpaccios luminosos?
¿En qué Venecia
estar? ¿En la de fuera
o en la Venecia del Carpaccio,
dentro,
toda bañada en luz a la
ligera,
milagro de la cruz y las
especias?...
¡Dejadme en un Carpaccio, muy
adentro,
que así puedo vivir en dos
Venecias!
Venecia
iluminada
¿De qué luz
están hechos los cocuyos
y las verdes luciérnagas,
luz y agua,
y los gusanos luminosos cuyos
besos son luz, y el fuego de la
fragua,
y las estrellas, y los ojos
tuyos,
aguasoles de sol que se
desagua,
y la aurora boreal que ha hecho
suyos
el esplendor del cielo que se
agua
en el mar, éxtasis y
agonía,
y la noche que sube a ser el
día
pulverizada en aire de
diamante
y el cinturón del cepo
rutilante,
de qué luz están
hechos, de qué hechizo,
que nos responda Dios el que los
hizo.
Esta rosa
amarilla
De qué oro de luz, carne de
rizo,
de qué oro de luz,
más luz que oro,
de qué oro de luz,
pétalos hizo
esta rosa amarilla, este
tesoro
del jardín más fugaz
y movedizo
que otras rosas enciende en su alto
coro
y una sola me dio, rosa y
hechizo
de relámpago en alas de
meteoro...
Incendio veneciano tan antiguo
que elude el vendaval de las
edades
y se hace realidad en el
exiguo
mar de ámbar y topacio de
esta rosa,
de esta rosa amarilla, de esta
rosa
encendida en fulgor de
eternidades...
Venecianas
islas
Por menos sed, la corza viene a
saltos
y a golpes de resortes, lengua
fina,
se lleva en la garganta los
cobaltos
de la tarde, en el agua
cristalina...
Por menos hambre, la callada en
altos
abedules, vuela a la vecina
esponja verde y pica a
sobresaltos,
en las frutas, la luna
vespertina...
Por menos sueño, la nocturna
fuga
de la serpiente, el topo, la
tortuga,
alas, pezuñas, cascos,
animales
y colores y formas
vegetales...
Menos sed, menos hambre y menos
sueño
y a nada reducido el vasto
empeño...
I primi quattro
sonetti furono scritti a Venezia nel febbraio del 1963 ed
editi il 15 marzo 1965 presso l'Istituto
Editoriale Cisalpino, Varese-Milano, per conto della Cattedra di
Letteratura Ispano-americana, Facoltà di Lingue e
Letterature Straniere, dell'Università Bocconi, in tiratura
di 300 esemplari, numerati in cifre arabe, quale omaggio
al Poeta.
Il sonetto che
inizia col verso «Esta rosa
amarilla...» fu composto in omaggio a Rosella
Meregalli, che aveva offerto al Poeta una rosa del suo
giardino.
Il sonetto che
reca il titolo «Venecia
iluminada» è dedicato a doña
Blanca de Asturias.
Gli ultimi tre
sonetti della raccolta furono scritti a Venezia nel maggio
1972.