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Abajo

La poetica del falso: Max Aub tra gioco ed impegno

Rosa María Grillo (ed. lit.)



cubierta



Nel ricordo di Letizia Atzeni



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ArribaAbajoPresentazione

Carla Perugini


Dalla cooperazione scientifica di entità diverse, italiane e spagnole, ha preso forma il progetto, ideato a Segorbe nel corso della celebrazione del ventesimo anniversario della morte di Max Aub, di tenere un congresso di studi a Salerno sullo scrittore. Le due giornate di studio salernitane, svoltesi nell'Ateneo di Fisciano il 14 e 15 marzo del 1994, hanno visto la partecipazione di un folto gruppo di studiosi internazionali, molti dei quali provenienti dal congresso su Aub tenutosi a Valencia nel dicembre precedente.

Il Centro Studi sul Falso, diretto dal Prof. Salvatore Casillo, e le Cattedre di Lingua e Letteratura Spagnola delle Facoltà di Lettere e Magistero (Proff. Carla Perugini e Rosa Maria Grillo), hanno organizzato il convegno, c on la collaborazione preziosa dell'Archivo y Biblioteca Max Aub di Segorbe, nella persona del suo Direttore, Miguel Ángel González Sanchis. Grazie al quale, e alla generosità del Prof. Dario Puccini, il Museo del Falso ha potuto accogliere una piccola ma significativa esposizione di falsi aubiani.

Il titolo del congresso, La poetica del falso: Max Aub fra gioco e impegno, ha stimolato le indagini degli studiosi su quella particolarissima figura di intellettuale che fu Aub, scrittore impegnato, militante antifranchista, prigioniero in campo di concentramento dopo la guerra civile ed esule in Messico, che seppe coniugare la denuncia del regime spagnolo e gli appelli alla libertà con un irresistibile umorismo e un'instancabile volontà ludica e sperimentale.

Lo sdoppiamento della personalità aubiana, peraltro ricchissima di inclinazioni artistiche (si cimentò nella narrativa come nel dramma, nella pittura come nella poesia, nel teatro e in altro ancora), seppe misurare la propria, umanissima cultura con quanti vennero in contatto con essa, facendo dell'alterità una cifra specifica della sua scrittura. Pur nella prolungata assenza dalla patria spagnola, Aub seppe «abitare la distanza»   —6→   (per riprendere il titolo di un recente libro di Rovatti), colmandola di Verità, categoria tanto più pregnante perché proveniente da un uomo che ebbe vivissimo il gusto per la falsificazione e l'apocrifo.

La prof.ssa Marina Vitale, in rappresentanza del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, ha aperto i lavori, cui hanno partecipato anche i Presidi delle due Facoltà: A. Trimarco ha rievocato, attraverso la presunta biografia di Jusep Torres Campalans, le radici del surrealismo e del cubismo nei protagonisti delle grandi rivoluzioni artistiche del XX secolo; A. Mango ha analizzato, in termini di categorie teatrali, i principi morali ed estetici di finzione e falsità, rivendicando all'arte lo statuto permanente e dichiarato di «divina menzogna».

L'umanesimo dolente e gaio dello scrittore e stato messo in rilievo da diversi interventi, fin dalle note di presentazione del Prof. Román Gubern, neo-direttore dell'Instituto Español de Cultura di Roma, che ha ricordato la sua amicizia e collaborazione con Aub risalenti a qualche anno prima della morte di questi.

La complessità dell'uomo del ventesimo secolo, la frantumazione dell'identità e la relatività e molteplicità del punto di vista, sono presenti in tutto il Jusep Torres Campalans, opera cubista se mai ve ne furono (M. A. González).

Un «vero» giornale può produrre falsi scoop, gridati a tutta pagina in un gioco scoperto, se il giornale in questione è «El Correo de Euclides», spedito da Aub ai propri amici per l'anno nuovo nel periodo fra il 59 e il 68 (S. Casillo). Con il suo amore per il falso e la sua passione civile, Max ha superato e ricomposto la frattura fra letteratura disimpegnata degli anni venti e letteratura impegnata degli anni trenta (R. M. Grillo). La creazione di apocrifi alla Borges rivela, nell'Antologia traducida, un ideale omaggio allo scrittore argentino (A. Cancellier). Il presunto discorso d'ingresso di Aub all'Academia Española è un paradigma della sua arte, divisa fra impegno e gioco, suggeritrice del dubbio come unica realtà convincente (H. Hermans).

Il Discurso ha stimolato più di un intervento al Congresso: la finzione vi assume un ruolo di denuncia morale, di proposta di un mondo eticamente e logicamente possibile, quindi vero (L. Londero); dall'intersecazione nel Discurso degli elementi storici con quelli fittizi si crea un insieme a metà strada fra vero e falso, in cui, da un atto iniziale di rimozione storica, nasce una suprema affermazione di libertà (V. Orazi).

D'altronde, in tutta la sua opera, Aub ha lavorato costantemente a   —7→   una desficcionalización della menzogna artistica, dandole connotati di veridicità, e a una uguale e contraria desrealización della realtà storica, con meccanismi funzionanti a livello stilistico, semantico e sintattico (J. A. Pérez Bowie).

Anche nella sua produzione teatrale, ossia nel genere «falso» per eccellenza, l'umorismo e il divertimento non vanno mai disgiunti dalla serietà d'intenti e da una spinta etica (S. Monti).

Un gioco molto più serio e «agonico» nell'invenzione di apocrifi, rispetto all'Antologia traducida, fu Imposible Sinaí, in cui la pluralità di voci che assume il poeta, oltre che un intento distanziatore dalla propria materia nasconde in realtà una presa di posizione a favore di una pacifica convivenza fa arabi ed ebrei (P. Moraleda).

Il falso più famoso della produzione aubiana e certamente la biografia del pittore cubista Jusep Torres Campalans, frequentatore di quell'avanguardia artistica dei primi anni del secolo, di cui Aub mostra una fortissima nostalgia (D. Puccini). Il gioco della menzogna rivela sempre un desiderio di cambiamento, contro la repressione e la prevedibilità; schiera l'interattività contro i riferimenti univoci (M. Cesaro).

Il gioco di scambio fra realtà storica e realtà finzionale si fa inestricabile ne La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco, in cui, ancora una volta, si rinnova il sortilegio della menzogna, l'abilità narrativa del grande illusionista (C. Perugini).

Dopo tutto, come avrebbe detto Aub in Campalans: «Come può esistere verità senza menzogna?».





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ArribaAbajoUn recuerdo de Max Aub

Román Gubern


En primer lugar, deseo agradecer a la Università degli Studi di Salerno, al Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari y al Centro di Studi sul Falso, su invitación para participar en este congreso sobre la obra de Max Aub. Debo aclarar, sin embargo, que no soy un especialista en la producción literaria de este autor. Pero he aceptado su invitación por tres razones. En primer lugar porque acabo de tomar posesión del cargo de director del Instituto Cervantes en Roma y este encuentro me brinda una oportunidad excelente para entrar en contacto personal con un grupo de prestigiosos hispanistas, que están desarrollando un trabajo científico de alto nivel, como se está demostrando en esta sesión. La segunda razón de mi presencia en Salerno se debe a que tuve el privilegio de que Max Aub me honrase con su amistad personal y nos tratamos asiduamente en la etapa final de su vida. Me parece un acto de justicia recordar aquí su obra, teniendo en cuenta que hoy aparece un tanto eclipsada para la nueva generación de lectores, como penalización póstuma a una obra producida en el exilio. Lo mismo ha ocurrido con Juan Larrea o Altolaguirre. A este respecto es notable constatar que los escritores trasterrados fueron castigados con un olvido mayor en la península que los asesinados por Franco, como García Lorca o Miguel Hernández, muerto en la cárcel. El injusto semiolvido en que ha caído la obra de Aub para los lectores más jóvenes debe ser reparado, y este Congreso es una contribución a esta justa causa. Y la tercera y última razón de mi presencia en este acto reside en que el tema central es «la poética de lo falso», que me interesa mucho. Yo he efectuado bastantes trabajos semióticos y he sido fundador de la Asociación Internacional de Semiótica Visual. Y el tema de lo falso está en el corazón de esta disciplina, hasta el punto que Umberto Eco ha podido escribir en su Tratado que la Semiótica es la ciencia que se ocupa de todo aquello que puede utilizarse para mentir. Yo he trabajado el tema de la «confusión   —10→   de géneros», que es aplicable enteramente a la falsa biografía del pintor Jusep Torres Campalans. Pero además, en mi actividad como guionista de cine y de televisión, también he abordado esta cuestión. Tras el gran éxito comercial del film Dragon Rapide, que escribí para Jaime Camino y que relata la gestación del golpe de Estado de 1936 por el General Franco, el director Antonio Mercero me pidió la colaboración para escribir el guión de Espérame en el cielo, una comedia que trata sobre el tema del doble de Franco, del auténtico y del falso Franco, que según la leyenda existió realmente.

Y ahora explicaré brevemente cuál fue mi relación personal con Max Aub. En 1971 yo residía en Estados Unidos, en Cambridge (Massachusetts), trabajando con una beca como investigador invitado en el Instituto Tecnológico de Massachusetts. En aquella ciudad conocí a un licenciado de Harvard en literatura francesa, llamado John Michalczyk, que estaba trabajando en una tesis doctoral sobre el film de André Malraux Espoir. Max Aub había participado decisivamente en aquel film, como coguionista, como ayudante de dirección e incluso dando su voz en el doblaje al personaje del piloto alemán Schreiner, en una brillante operación de falsedad fonética y de despersonalización psicológica. De hecho, muchos opinan que Aub fue un verdadero codirector de Espoir. Pues bien, Michalczyk quería entrevistar a Aub para su tesis y me pidió si podía contactarle para ello. Averigüé sus señas en México a través de un amigo común, Ricardo Muñoz Suay, y le escribí. Max conocía mis libros y me contestó con una carta amabilísima, en la que me pedía a su vez mi colaboración para obtener algunos datos para la biografía de Luis Buñuel que estaba escribiendo.

A lo largo de una serie de cartas Aub me explicó que su libro, del que tenía ya más de mil folios, sería sobre todo una biografía generacional y un fresco de las ideas estéticas de una época. Tenía previsto que se publicara junto con una biografía de Matisse a cargo de Louis Aragon (libro del que ignoro si efectivamente llegó a publicarse), pero me confesaba su retraso. En cualquier caso, como había leído mi libro sobre la inquisición maccarthysta en Hollywood, me preguntaba si había encontrado algún documento que indicase la inclusión de Buñuel en las listas negras de la industria del cine. Me pidió también que investigase el paso de Buñuel por la filmoteca del Museo de Arte Moderno de Nueva York entre 1941 y 1943, y que localizase el texto de una conferencia suya en la Universidad   —11→   de Columbia y un remontaje suyo, con finalidad de contrapropaganda política, del famoso film nazi El triunfo de la voluntad, de Leni Riefenstahl.

Siguiendo su indicación, encontré las cartas en que Buñuel pedía su admisión laboral en el Museo de Arte Moderno, así como la de su dimisión en junio de 1943, a causa de las presiones de sectores católicos, cuando el semanario Motion Picture Herald divulgó y denunció que un republicano español ateo, autor del film blasfemo L'Age d'or, trabajaba en el Museo (luego Aub me escribió diciéndome que Buñuel no autorizaba la reproducción de esta carta). También localicé el texto de la conferencia y el montaje del film de Leni Riefenstahl. El fruto de esta relación fueron una veintena de cartas, que hoy se hallan depositadas en el Museo Max Aub de Segorbe.

A principios de 1972 Max Aub, otro republicano español sospechoso a los ojos de los funcionarios norteamericanos, recibió por primera vez un visado para poder viajar a los Estados Unidos. El motivo de este viaje fue el de asistir a un seminario de literatura en Columbia University y otro en Harvard, invitado por el hispanista Steve Guilman. Habíamos concertado nuestra cita en Cambridge y nos encontramos en casa de Juan Marichal, profesor en Harvard, y de su esposa Solita Salinas, hija del poeta Pedro Salinas. Fue un encuentro emocionante, en el que hablamos de cientos de cosas. Recuerdo especialmente, y no lo olvidaré jamás, su relato de la decepción que le produjo a los refugiados republicanos su llegada al puerto de Veracruz, que era en aquel entonces un pobre pueblo de pescadores. Llegaban de la próspera Europa a un rincón perdido del trópico y a muchos aquello les pareció el final de sus vidas. Luego cenamos en casa de otro ilustre exiliado, del arquitecto José Luis Sert, autor del Pabellón de la República en la Exposición de París de 1937 y ahora profesor en Harvard.

Al finalizar mi beca, regresé a España en junio de 1972. Habíamos acordado con Aub un nuevo encuentro en Barcelona, para continuar sus entrevistas sobre Buñuel. A finales de este mes Aub viajó a la península, en su segundo viaje tras el exilio de la guerra civil. Del primer viaje, en 1970, para recabar materiales sobre su biografía, nos queda el testimonio de La gallina ciega. Pero del segundo no nos queda nada, salvo la memoria personal, pues murió dos semanas después, recién regresado a México.

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En este viaje, y tal vez agobiado por los calores veraniegos, encontré a Max Aub bastante desmejorado. Pasamos una tarde en mi biblioteca, en donde le di un ejemplar del libro Dalí al desnudo, de Manuel Del Arco, un texto ya agotado y que no había podido conseguir. En nuestra larga conversación reivindicó a Jean Cocteau, como personalidad artística, aunque discrepara de su posición ideológica. Y afirmó agudamente que Buñuel siempre había rodado el mismo film, pero contándolo cada vez de un modo distinto. Tuve que darle la razón. Al día siguiente fuimos, con su esposa, a entrevistar con un magnetófono a José Repolles, un vecino de Calanda que conocía bien a la familia Buñuel.

Nos despedimos y, poco después, me sorprendió dolorosamente la noticia de su muerte, a causa de un nuevo infarto cardíaco sufrido en México en julio de 1972. Casi no podía creerlo. Como es sabido, una parte de las entrevistas de Max fueron luego publicadas por Editorial Aguilar y traducidas luego a otros idiomas. En cuanto a la tesis de Michalczyk sobre Espoir, Aub había prometido escribir un prólogo para la edición que publicó la Universidad de Mississippi. Al fallecer, John me pidió que le reemplazase y lo hice con dolor, explicando en el texto las circunstancias de esta lamentable permuta. Mi prólogo no fue un «falso», como los juegos de Aub, sino una involuntaria sustitución, en la que el original fue sustituido contra mi voluntad. Y posteriormente rendí homenaje a Max Aub en un Número monográfico de Ínsula, con un artículo sobre las relaciones del escritor con el cine.



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ArribaAbajoFalso e dintorni

Rosa Maria Grillo


Per quanto si conosca Max Aub principalmente come autore del Laberinto español e come drammaturgo, in questa sede si è voluto privilegiare la sua produzione legata al 'falso', sia formale che contenutistico, letterario, artistico o storico. A mo' di introduzione ai contributi specifici su questo o quel falso, il mio intervento vuole essere un excursus sulla multimedialità di quei falsi in cui Max Aub non solo esercita il grande dono della versatilità (narratore, poeta, critico, storico, pittore, saggista, giornalista, sceneggiatore cinematografico, direttore radiofonico e inventore di riviste, grafico e tipografo) ma sperimenta le diverse possibilità della utilizzazione del falso, dal puro gioco (Juego de cartas) al più severo impegno (El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo, «El Correo de Euclides», Imposible Sinaí ecc.).

La casistica dei falsi è amplissima, ma nel caso che ci interessa possiamo immediatamente scartare una prima possibilità: il falso come imitazione di un qualcosa che già esiste, prodotto con l'intenzione dolosa di far credere che è l'originale1.

I falsi aubiani rientrano invece tutti nella categoria che Eco chiama «contraffazioni ex nihilo»2, in cui non esiste un originale che il falsario copia aspirando alla identicità, ma solo un genere, uno stile, «un tipo astratto»3, un modello su cui creare opere apocrife o contraffazioni creative. Elementi indispensabili perché i falsi siano veri, cioè credibili, sono tutti quelli che stanno intorno all'oggetto-testo e fuori di esso: un personaggio fittizio, senza un apparato 'reale' che susciti dubbi sulla sua appartenenza al mondo finzionale, non uscirebbe dal campo della letteratura;   —14→   diventa un falso quando tutto intorno ad esso sembrerebbe confermare la sua appartenenza al mondo reale4.

Parliamo di falso letterario, quindi, quando la verosimiglianza, ingrediente fondamentale del realismo, acquisisce anche i connotati della storiografia, cioè della affermazione e della verificabilità della coincidenza tra quanto e narrato -creato- e quanto e storicamente successo, suffragato da testimonianze e documenti degni di fede; cioè quando non si impone il patto finzionale bensì quello referenziale, proprio dei discorsi scientifici, storici, tecnologici e giuridici in cui si dà per scontato il principio della 'sincerità' del soggetto dell'enunciato e del diritto alla verifica da parte del destinatario. Lo stesso discorso, cambiando i referenti, vale per il falso artistico, storico ecc.

Stricto sensu, tra le opere di Max Aub solo Jusep Torres Campalans (1958) entra totalmente nella categoria del falso, giacché risponde ai requisiti sopra indicati e tutto, nel paratesto e in altri elementi accessori, concorre al riconoscimento del personaggio come realmente vissuto: e così è stato recepito dal pubblico5. Anzi, il testo Torres Campalans è solo un ingrediente di una complessa architettura di falsificazione, che comprende anche quadri, esposizioni, recensioni, articoli giornalistici, rimandi intertestuali, tesi a confermare l'esistenza del pittore. Inoltre, l'esposizione dei falsi ha generato altri falsi, coinvolgendo i critici d'arte; si ricordi ad esempio quanto scriveva Jaime García Terres a proposito della esposizione dei dipinti di Torres Campalans nella Galería Excelsior di Città del Messico, dove «concurrieron los críticos y espectadores consabidos: la gente compraba los cuadros: Fuentes y yo sorprendimos a uno de los teóricos de mayor fama local en el momento en que analizaba influencias y ponderaba -muy circunspecto- simetrías. Al punto decidimos falsificar una serie de textos alusivos al pintor imaginario, atribuyéndolos a firmas genuinas en boga. Un suplemento literario acogió sin dificultad nuestros engendros en la primera plana [...] Max reunió las parodias y las editó en un folleto de lujo, titulado: Galeras»6.   —15→   Anche Siqueiros, non sappiamo se coinvolto o meno nel gioco, assicurò di averlo conosciuto7.

Possiamo invece considerare false altre opere di Aub ricorrendo a un criterio più ampio di definizione della categoria: infatti non sempre il paratesto e altri elementi intertestuali ed extratestuali reggono il gioco, e a volte, quando il contenuto non corrisponde alla Storia, il paratesto o la parola autorevole di Aub non ci possono convincere del contrario. D'altra parte, opere come la Antología traducida e Imposible Sinaí tecnicamente non contengono nessuna prova che faccia pensare a falsi e apocrifi, ma solo elementi indiziari, come l'ironia con cui è tracciata la sua stessa biografia nella Antología traducida o l'improbabilità che Aub sia entrato in possesso di lettere, diari e documenti dei combattenti della guerra dei sei giorni.

Da sottolineare l'estrema importanza, nella creazione dei falsi aubiani, del paratesto e della 'cornice' che permettono ad Aub di intervenire come autore, editore, depositario di testi altrui, garante di ciò che si legge. È un espediente antico che Aub trasforma, da semplice 'contenitore' di fabulae, nella fabula stessa, luogo nel quale si realizza la falsificazione dei personaggi e delle loro opere e del ruolo giocato da Aub, non più autore tot ale, ma solo compilatore di prologhi e note, antologista e, a volte, traduttore. È il paratesto, cioè, che ci rassicura sulla 'reale' identità del testo, e che incide fortemente sull'orizzonte d'attesa del lettore, indirizzandone l'aspettativa verso il campo della finzione (romanzo, creazioni poetiche, parodie ecc.) o della storiografia (biografia, autobiografia, traduzione di saggi scientifici, saggio critico): indicandogli una falsa pista lo invita, e a volte lo convince, a considerare storiografici testi di finzione, e viceversa8.

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A quali modalità fa ricorso Max Aub per creare questo suo mondo 'falsificato', alternativo rispetto a quello del Laberinto español e del teatro dell'esilio, basati sull'impegno, sulla verosimiglianza e sulla scrupolosa esattezza dei dati storici?9 Chiamando a testimoniare colleghi ed amici, suscitando in loro l'adesione al suo 'gioco'10, stilando a loro nome veri 'certificati d'esistenza', creando un clima, una verità di fondo, una trama di corrispondenze in cui il personaggio rientra perfettamente e una serie di trappole alle quali il lettore difficilmente sfugge.

L'esempio più completo, anche in questo caso, e Jusep Torres Campalans, in cui troviamo un paratesto deviante (tutto indica che si tratti di una biografia, tranne un indizio nel risvolto di copertina della prima edizione, passa to inosservato: Otras novelas de Max Aub:...), la testimonianza di persone di indiscussa esistenza e credibilità (Cassou, Alfonso Reyes), un apocrifo (il Cuaderno verde), un falso fotografico (il montaggio in cui appaiono Picasso e Campalans e un fotogramma di Sierra de Teruel presentato come foto dei genitori di Campalans), un falso artistico (i quadri), un falso giornalistico (l'intervista con Torres Campalans), un falso storico (gli Annali, dove si afferma esplicitamente: «Nada   —17→   escribimos de memoria [...] sino estudiando y teniendo sobre nuestra mesa documentos en que apoyar todas y cada una de nuestras afirmaciones»11 e dove tra moltidudini di dati esatti su nascite, morti, avvenimenti storico-politici, eventi letterari, teatrali e artistici, si insinuano pochi ma significativi nomi e fatti fittizi, tutti perfettamente adeguati e credibili). Si tratta in realtà di un compendio, di un manuale per aspiranti falsari in cui alla creatività e all'inventiva letteraria, già di per sé di altissimo livello, si accompagnano l'erudizione (gli annali) e la brillante e documentata capacita critica (il Cuaderno verde, intelligente saggio sull'arte contemporanea), nonché l'abilità pittorica e organizzativa (l'esposizione). Jusep Torres Campalans appare come una inimitabile opera di sintesi anche perché compendia quelli che abbiamo indicato come i due versanti del falso aubiano, il gioco -l'invenzione, la pura creatività ludica, il cimentarsi in un campo, la pittura, con chiaro intento parodico -e l'impegno- la scelta del pittore catalano di vivere a Parigi indica inequivocabilmente una scelta di vita, e la sua partenza per il Chiapas il rifiuto di una città e di una civiltà, diventando così simbolo di un esilio che, per quanto volontario, è il destino di quella Spagna che non ha potuto vedere tra i membri della sua Accademia Lorca, Bergamín, Aub ecc. Si può parlare anche di critica verso il mondo dell'arte contemporanea, in cui parrebbe impossibile distinguere un capolavoro da un semplice gioco o da un'opera 'alla maniera di...'12.

Altri falsi meno riusciti -cioè non recepiti dal lettore come 'veri'- utilizzano solo alcune delle modalità indicate e si inclinano più decisamente o verso il gioco o verso l'impegno, che però non sono mai, in Aub, mondi antitetici, ma vasi comunicanti con diversa intensità. D'altra parte, egli stesso aveva affermato che il suo umorismo, che tanto incide sulla genesi e sulla scrittura dei falsi, non era altro che autocensura davanti al dolore: autocensura totale, nel caso dell'umorismo ludico, sorridente e bonario, e autocensura certamente sofferta e in qualche modo inefficace, nel caso dell'umorismo amaro, polemico e critico.

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Ed è pur vero che l'elemento ludico, presente nelle avanguardie e nell'arte 'deshumanizada', continuerà ad esercitare una forte attrattiva su Max Aub -eludendo quindi la frattura tra letteratura disimpegnata degli anni '20 e impegnata degli anni '30- esplicitandosi soprattutto nella costruzione del contesto e del paratesto, nella scelta della forma, piuttosto che nella selezione del contenuto che inevitabilmente subirà l'ineludibile attrazione delle problematiche del suo tempo. E si concretizzerà ad altissimi livelli nella creazione di falsi13, di alter ego, di mondi alternativi dove agiscono personaggi reali o di mondi reali in cui si muovono le sue credibili e affascinanti creature.

Tra le molteplici modalità del falso aubiano ne abbiamo selezionate tre in quanto presenti e determinanti le principali creazioni false: apocrifi letterari e artistici, falsi storici.

La modalità più utilizzata e l'apocrifo letterario, integrale in Antología traducida, Subversiones, Pequeña y vieja historia marroquí, Imposible Sinaí, parziale in Luis Álvarez Petreña, El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo e Jusep Torres Campalans, integrale ma evidente falso in Manuscrito cuervo, Enero sin nombre, Sesión secreta14.

Mentre Pequeña y vieja historia marroquí (Cuentos ciertos, 1955) è un apocrifo singolo, «diario de Alberto Gabiraux traducido del francés», con apparato paratestuale inutilmente contorto e poco credibile, gli altri tre apocrifi integrali credibili sono antologie in cui Aub appare come antologista, curatore delle note e delle biografie, e a volte traduttore.   —19→   Questi testi si avvicinano sensibilmente alla categoria di 'falso perfetto': la confezione è accurata, il paratesto da le coordinate storico-culturali per una corretta interpretazione delle scelte dell'antologista e negli scritti introduttivi sono chiamati a testimoniare, o sono indicati come traduttori e/o specialisti, tutti posti sullo stesso livello referenziale, nomi veri e nomi incontrollabili, per di più questi ultimi, nel caso della Antología traducida (1963, 1966), dati per morti. La presenza di Max Aub -il cui componimento poetico naturalmente e l'unica eccezione alla natura apocrifa dell'Antologia- conferma il gioco di rimandi tra realtà e invenzione, tra discorso storiografico e discorso finzionale, ingrediente basilare della complessa poetica aubiana: assenza totale di certezze, indiscernibilità di verità e falsità, irrinunciabilità alla tecnica cubista della focalizzazione multipla per rendere conto della frammentazione e della crisi dell'identità dell'uomo moderno. Se i poeti della Antología sono identificabili con nome e nota biobibliografica, in Subversiones (1971) regna l'anonimato (anche se non mancano indicazioni di genere, epoca ecc.) giacché si tratta di «cánticos y plegarias para algunos grupos de poesía coral»15, cosa che rende più problematica l'eventuale ricerca delle fonti; ma non cambia il gioco di fondo di Max Aub, che si appella al significato etimologico di subversiónVersión de versiones, subversiones [...] porque [...] el paso de tanta lengua a otra, a la fuerza ha de llevar al trastorno, la perturbación y la destrucción que, según el diccionario, viene a ser la subversión», p. 9) e quindi alla ineludibile falsificazione di qualsiasi intervento interpretativo e traduttivo («forzosamente inferior por haber pasado por tantas aproximaciones», p. 9). La traduzione, quindi, come forma ulteriore di falsificazione, essendo una 'versión' di quella 'traducción' primaria che e l'opera rispetto alla realtà.

La breve Nota e il giornalistico resoconto dei sei giorni di guerra che precedono Imposible Sinaí (1982) prospettano al lettore un irrefutabile contesto storico; la presenza di due anonimi e di un punto interrogativo vicino a un terzo nome non hanno altra funzione che quella di confermare e sottolineare la veridica esistenza e l'esattezza dei dati degli altri 'autori'. Tutto è plausibile, e solo i dati indiziari già indicati, la ormai consolidata fama di falsario di Aub e l'impossibile ricerca delle fonti hanno 'smascherato' la vera natura di questa opera impedendole il fortunato   —20→   destino di 'falso perfetto' del Jusep Torres Campalans. Senza entrare nel dibattuto problema del rapporto tra immedesimazione e 'straniamento' nella creazione degli apocrifi16 e di eventuali indicazioni derivanti dalla loro natura -invenzione totale o utilizzazione di un nome reale-, possiamo forse insinuare un parallelismo tra i dialoghi, principalmente quelli a più voci, frequentissimi nei suoi romanzi, e gli apocrifi -soprattutto quelli antologici: entrambe le modalità permettono a Aub di affermare tutto e il contrario di tutto, di presentare un avvenimento, una ideologia o un sentimento da vari punti di vista, tutti credibili e garantiti dalla parola 'd'autore'17. Temi ricorrenti nei frammenti apocrifi di queste antologie sono quelli della guerra e del dolore umano che, visti, cantati o narrati da poeti e narratori -con o senza nome- di diversa cultura ed epoca o da soldati inesperti, acquistano spessore e quasi si oggettivizzano. Come scrive Manuel Durán, «No se trata de un juego de ingenio, aunque abunde el ingenio; sino más bien de una inagotable facultad a la vez creadora y mimética; Aub ha puesto en movimiento un gigantesco caleidoscopio poético, que es a la vez una máquina de tiempo: nos permite penetrar en el pasado y reconstruirlo a voluntad»18.

Più complesso è il caso degli apocrifi parziali che sembrano avere la principale funzione di corredare e sorreggere altri testi, quasi garantendosi reciprocamente veridicità e referenzialità. Cosi il Cuaderno verde di Torres Campalans e i racconti e le poesie di Luis Álvarez Petreña, oltre ad essere riusciti pastiches, danno corpo alle opere in cui sono inseriti adeguandosi perfettamente al gioco tra testo, paratesto ed intertesto, strumento indispensabile, come abbiamo visto, alla creazione di falsi. Esemplare in questo senso, oltre al già citato Jusep Torres Campalans, e Luis Álvarez Petreña che, definito apertamente 'novela' nella Nota del Editor19, sembra continuamente smentire questa affermazione. Persone reali intervengono per integrare notizie e commenti sul personaggio e giudicare la sua opera, per testimoniare la sua esistenza e sottrarre ad   —21→   Aub il ruolo di creatore lasciandogli quello di editore, investigatore e antologista. Persino un ritratto di Álvarez Petreña disegnato da Aub su un tovagliolino di carta viene riconosciuto come prova irrefutabile di esistenza da parte di Camilo José Cela. Il testo in realtà si presenta come una biografia-antologia che, nelle diverse edizioni, si arricchisce man mano che si raccolgono nuovi dati e 'inediti'20 e si pubblicano recensioni e critiche sull e opere del presunto poeta morto suicida. La antologia, cioè le opere attribuite ad Álvarez Petreña, costituisce il testo; quella che abbiamo chiamato biografia, cioè le notizie, le note con successive aggiunte e correzioni, supposizioni e contraddizioni (in totale 16 'pezzi') sarebbe il paratesto che integra e ordina i testi dell'antologia, li giustifica, li giudica e garantisce la loro autenticità. Sembrerebbe un accorto lavoro filologico-bio-bibliografico, ma la presenza di iniziali, sigle, rimandi intra ed intertestuali, configura invece una strategia narrativa deviante: come Eco a proposito del Gordon Pym di Poe, potremmo chiederci: «Chi è in tutto questo intrico testuale l'autore modello?»21 Chiunque sia, è la voce, o la strategia, che confonde i vari supposti autori empirici affinché il lettore modello sia coinvolto in questo teatro catottrico»22.

Diverso è il caso del Teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo23 (1971), inviato agli amici come 'Número extraordinario   —22→   de 1971' di «El Correo de Euclides», costituito, oltre che dal 'falso storico' autografo del discorso di ingresso alla Accademia, dalla risposta apocrifa di Juan Chabás y Martí che, alla data del supposto discorso (1956), era morto già da due anni, esule a Cuba. Il discorso di risposta di un accademico (ma Chabás non lo è mai stato) era indispensabile per dare credibilità all'intera pubblicazione, copia pressocché perfetta delle edizioni non venali che per tradizione i neofiti facevano a loro spese24. Accademico falso, tenuto in vita solo dalla finzione aubiana, Chabás è in realtà il testimone più autentico tra quanti presentati da Aub a supporto dei suoi falsi: questo discorso e in gran parte opera dello stesso Chabás, che nella sua Literatura española contemporánea aveva scritto: «Hacia 1922 aparece por las tertulias literarias de Madrid un mozo todavía muy joven, que aún tenía por delante la prodigiosa aventura de cumplir veinte años». Leggermente 'deformate', ritroviamo le stesse frasi come incipit del discorso apocrifo di Chabás: «Hacia 1923 aparece por las tertulias literarias de Madrid un mozo todavía muy joven, que acababa de correr la prodigiosa aventura de cumplir 20 años». Come si vede, il gioco dentro del gioco, un falso discorso che fondamentalmente non è né un falso né un apocrifo ma un 'adattamento' postumo, un aggiornamento delle parole e dei giudizi di Juan Chabás, che nel tracciare il profilo di Aub nella sua storia letteraria aveva utilizzato -e utilizza ora Max Aub- il Proyecto para un Teatro Nacional y Escuela Nacional de Baile che realmente Aub aveva compilato e inviato nel maggio 1936 al l'allora Presidente della Repubblica Manuel Azaña25.

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Tra gli apocrifi evidenti falsi sopra citati, vi è Manuscrito cuervo (Cuentos ciertos, 1955) in cui è presente anche l'artificio del manoscritto trovato per caso, tradotto e pubblicato. A parte altre considerazioni su questo topos letterario, si possono sottolineare la completezza e seriosità del prologo e delle altre indicazioni paratestuali -note filologiche, epigrafe ecc.- tese ad inquadrare nella storia e nella cultura la testimonianza di Jacobo; ma immediata arriva la smentita di tanto zelo referenziale con la scoperta della vera identità dello scrivente e della particolare microsocietà che costituisce il campo di studio di Jacobo, cioè il campo di concentramento di Vernet, svelate dal curatore e prologhista J. R. Bululú, ospite appunto di quel campo: «Jacobo era un cuervo amaestrado [que] paseábase [...], dándose importancia, entre los barracones y aun volaba del A al B al C, cuarteles que nos dividían al azar, aunque en principio correspondiera el primero a los denominados detenidos 'políticos', el último a los delincuentes comunes y el otro a la morralla de las más variadas índoles: judíos, españoles republicanos, algún conde polaco, húngaros indocumentados, italianos antifascistas, soldados de las Brigadas Internacionales, vagos, profesores etc.»26. L'evidente paradosso permette ad Aub di esternare un umorismo amaro, che trova la cifra espressiva più adatta nella scrittura 'straniata', nell'occhio incredulo e rigoroso di Jacobo che analizza e si interroga sulle strane usanze di questa comunità -da lui ritenuta un campione significativo della macrosocietà umana- dove, ad esempio, «el tono de voz varía según los galones [...] Los de más galones mandan a los de menos, y éstos a quien no los tiene. Así, de arriba a abajo, descargan su enojo [...] Ahora bien, el soldado alemán manda al general francés» (p. 170).

Ugualmente apocrifo impossibile, sarcastico e ironico, è il racconto Sesión secreta (Historias de mala muerte, 1965), relazione di un governante di un supposto paese africano che, per risolvere i problemi del sottosviluppo e della crescita demografica incontrollata, propone di vendere carne umana ai paesi industrializzati. «Traducido del francés por Max Aub», e corredato da una rete di elementi paratestuali e, come Manuscrito cuervo, si presenta come testo scientifico, relazione ufficiale suffragata da dati presi sul campo e da elaborate statistiche. Minore   —24→   chiaramente è il grado di 'straniamento' -rispetto al Manuscrito- perché minore è la distanza tra la cosmovisione del relatore e il mondo altro a cui fa riferimento -la civiltà occidentale- ma non meno vigorose sono la carica critica e la logica 'straniata' sottese alla proposta. E la soluzione finale -perfettamente consequenziale alle premesse- rende esplicita l'avvenuta omogeneizzazione delle due civiltà, giacché i paesi sottosviluppati hanno fatto proprio il principio economico che regola le società avanzate, quello dell'adeguamento dell'offerta alla domanda: «Los blancos y su enorme y natural influencia han hecho que gran parte de la humanidad se nutra hoy de productos enlatados. Honorables representantes: enlatemos nuestros sobrantes. Vendámoslos, cambiémoslos, por lo que necesitamos»27.

Ancora diverso è il caso di Enero sin nombre (Cuentos ciertos, 1955) in cui un albero assiste, incredulo e incapace di cogliere le motivazioni profonde, all'esodo dei vinti dopo la caduta di Barcellona. Qui la scrittura 'straniata' non genera e non trasmette ironia, sarcasmo, ma solo dolore, sottolineato dalle diverse connotazioni che acquistano le parole al riferirsi al mondo umano o a quello vegetale: «Posiblemente los hombres son desgraciados por moverse tanto, pero más se lleva el viento. Anoche se murió un niño a mi pie; murió verde y se lo llevó su madre camino a Francia, creyendo que allí resuscitará; no creo en milagros. Tampoco comprendo por qué se mueren los niños: morir es cosa de quedarse seco»28 (il corsivo é mio).

In questi casi si potrebbe parlare di 'vero storico' (il campo di concentramento, la struttura economica delle società occidentali, la ritirata dei repubblicani verso la frontiera francese nel gennaio '39) di falsi cronisti, al contrario del 'falso storico' che, secondo Umberto Eco, è «un documento formalmente autentico che contiene informazioni false»29.   —25→   In quest'ultima categoria possiamo senza dubbio includere, oltre ai già citati Anales del 'falso perfetto' Jusep Torres Campalans, il discorso del l'Accademia, La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco e il «Correo de Euclides», pur ricordando che questi ultimi non posseggono né «pretesa di identità» né «intenzione dolosa», due tra i vari re quisiti indicati da Eco30 come condizione sine qua non del falso stricto sensu. E possiamo subito sottolineare come questi tre testi siano accomunati da una vena polemica e critica, dolorante ed esacerbata, venendo a costituire, in modo direi compatto, quello che abbiamo definito il falso 'impegnato', il falso come contenitore e amplificatore di forti messaggi morali e politici.

Il discorso letto da Aub al suo ingresso nella Academia Española -non è più Real perché siamo in era repubblicana- è un falso storico in quanto, partendo dalla verificabile situazione storico-culturale spagnola degli anni '20 (i nomi dei membri della Academia sono tutti reali e le note che si riferiscono al teatro spagnolo fino al 1936 rispondono alla incontestabile storiografia), nega poi la guerra civile e le sue conseguenze, lasciando sviluppare 'naturalmente' -in un clima di democrazia e di vivacità culturale- quello che avrebbe potuto essere il nuovo teatro spagnolo, inaugurato agli albori della decade del '30 da opere come Divinas palabras, Bodas de sangre, El hombre deshabitado, La corona, La sirena varada31. Accurata è la rete di relazioni tessuta tra il reale anteriore al 1936 e il falso successivo: come scrive Javier Pérez Bazo, «la ficción histórica, entendida, por ejemplo, en tanto que novela histórica, cede su orden a una Historia ficticia en cuanto modalidad utópica o hipótesis sustitutoria de la historia acontecida»32. Il discorso apocrifo   —26→   di Chabás, come già sottolineato, e l'imitazione tipografica (stemma, tipo di carta e di caratteri ecc.) rendono questa pubblicazione perfettamente assimilabile a quelle della Real Academia storica e mostrano come anche nell'ambito più immediatamente tangibile e riconoscibile, quello tipografico e segnico, Max Aub porti alle estreme conseguenze l'intenzionalità irriverente del falso.

Altro falso storico eccellente è «El Correo de Euclides», periódico conservador che Aub confezionò e inviò agli amici in occasione delle feste natalizie dal 1959 al 1968 (tranne nel 1960 e 1961, ma con un numero doppio nel 1963 e un numero straordinario nel luglio 1967). Si tratta di un giornale doppiamente falso, giacché ai titoli che occupano intera la prima pagina non seguono -all'interno- gli articoli corrispondenti (falso, quindi, in quanto non soddisfa le attese del lettore, folgorato ma non appagato dai titoli), e falso in quanto falsificazione e manipolazione di eventi reali. Ancora una volta, l'elemento prevalente non è quello del gioco, della simulazione, della innocua inversione tra realtà e invenzione (lo stesso titolo si riferisce alla strada dove abitava a Città del Messico): nell'accurato gioco tipografico tra caratteri, formato e colore che caratterizza i titoli relativi ai principali avvenimenti dell'anno -con una coesione interna che fa di ogni Correo un numero monografico- emergono l'interesse che Aub ha sempre avuto nei confronti del mondo e il suo umorismo critico e amaro. La sua lettura della storia contemporanea -di Spagna e del mondo- è arguta e profonda, i fatti a cui allude hanno una corrispondenza per quanto stravolta con eventi reali, o si basano su presupposti veri o per un attimo ritenuti tali33: sfumature semantiche, ironia trasparente, deformazioni, giochi di parole, mascherano con la veste ludica e parodica del falso giornale e della brillante boutade le profonde preoccupazioni di Aub uomo e intellettuale e la sua profonda disillusione. Basta scorrere alcuni titoli per immergersi in questa storia 'altra' di Aub, in questo riuscitissimo collage non solo di notizie, ma anche di sentimenti, di passioni, di verità nascoste, di risposte negate che si affastellano, si gonfiano, si contorcono intorno alla notizia-chiave, generalmente presentata con caratteri cubitali in rosso. Il 'número extraordinario' del luglio '67 dedicato alla guerra arabo-israeliana   —27→   ben evidenzia il procedimento e la struttura di questi falsi storici: partendo infatti da un avvenimento reale -di drammatica attualità allora come ora- si dipana la Storia altra di Aub, prospettando, come nel caso del Discorso dell'Accademia, una utopica soluzione, che coinvolge non solo i contendenti, ma anche la penisola iberica con una ridistribuzione di ruoli ed equilibri: infatti se «Nasser acepta el Reino de Murcia» e Hassan II diventa Re di Granada, tutti «los Refugiados Palestinos a Valencia, Aragón y Cataluña [...] estarán como en su casa». Agli spagnoli non resteranno che le regioni del Nord mentre «En Estoril, Don Juan habla de una posible reconquista»: contro gli arabi, o contro Franco che a Yuste «es nombrado príncipe del Valle de los Caídos»? Non ci sono gli articoli che interpretino e giudichino questi fatti di rilevanza internazionale (mentre la «Mayoría de la O. N. U.» è d'accordo, «Surgen complicaciones con las Bases Norteamericanas» e «Inglaterra cede Gibraltar al Rey de Marruecos») o un editoriale che espliciti il punto di vista del Direttore e del giornale nel suo complesso ma, con sottile ironia, Max Aub ricorda che l'esilio non è quello ipotetico dei regnanti spagnoli cacciati dagli arabi che hanno accettato di «cambiar sus aspiraciones Palestinas por las Españolas, mucho más gloriosas», bensì quello del «Gobierno Republicano» che inutilmente protesta contro l'occupazione della Spagna da parte di nuovi e antichi barbari. Sul retro della hoja il messaggio augurale di Aub riporta il destinatario del «Correo» al puro livello finzionale: la soluzione del conflitto proposta da Aub è solo un «cuento extraordinario» inviato «deseándole felices y tranquilas vacaciones» anche se, nel numero successivo, attribuisce il ritardo con cui invia il «Correo» n. 6 «a ciertas dudas, falsas esperanzas, a la imprenta y, seguramente, al Correo», evidenziando l'ambiguità del titolo e il livello di referenzialità profonda che hanno i suo i assurdi scoop.

Non mancano neanche invenzioni fantascientifiche, in realtà meta fore di una realtà che appare essa stessa incredibile: «Según revelación del Senador Smith, en la Comisión de avatares antinorteamericanos: Dios creó la tierra por un informe equivocado de la C. I. A.» (1968), «No nos vemos como nos ven. La culpa de los espejos [...] Nuevos espejos correctos desde el mes próximo» (dic. 1963). Come sintetizza José María de Quinto, il «Correo de Euclides» «venía a ser como la condensación de las máximas contradicciones y de las más disparatadas informaciones suministradas por la prensa mundial, condensación llevada   —28→   a cabo mágicamente por medio de un alambique único manejado por una inteligencia superior»34.

La verdadera historia... (1960) e un falso storico fin troppo scoperto nel contenuto, e privo di testimonianze accessorie ed elementi paratestuali che insinuino la sua appartenenza al discorso storiografico; anzi la sua pubblicazione esplicita come racconto35 annulla immediatamente ogni possibilità di considerarlo 'vero', malgrado l'indicazione compresa nel titolo che ammicca ironicamente alle cronache della Scoperta e si contrappone alla realtà fittizia del testo. Al suo interno si svolge un gioco vorticoso tra Storia (il titolo e il nome compreso nel titolo, l'ambientazione a Città del Messico e i nomi di intellettuali e artisti spagnoli e messicani conosciuti che frequentano il bar 'El Español', nella prima parte) e invenzione (il viaggio di Nacho e la sua nuova identità, le peripezie e le modalità poco credibili che gli permettono di attuare il suo piano utopico e antistorico, nella seconda parte), la cui punta di diamante è il mascheramento di Nacho, che si inventa un'altra identità e un'altra vita per poter cambiare la Storia. Su tutto, aleggia l'ironia amara, la tristezza, il peso, direi, della Storia, che ha strozzato e i mmobilizzato per sempre, come in una caricatura, aldilà di tutte le possibili scelte ideologiche, gli esiliati spagnoli in Messico. In questo caso il titolo è l'elemento definitorio -per contrasto- della falsificazione, in quanto non viene mantenuta la promessa referenziale ivi contenuta, e costituisce la conferma dell'enorme importanza che hanno i titoli nell'indirizzare l'orizzonte d'attesa del lettore. Così 'verdadera historia' e 'novela' -nel gioco delle falsificazioni aubiane- appaiono come indizi fortemente depistanti, e addirittura intercambiabili: infatti, come si legge in Conversaciones con Buñuel -il cui titolo originario era Buñuel: novela- «La Historia es semi-invención y viene con el tiempo a ser una verdad variable, según el presente [...] Si lo he subtitulado novela es porque, a pesar de todo, quiero estar lo más cerca posible de la verdad»36. In quest'ottica, il titolo 'verdadera historia' risponde perfettamente al sogno utopico, o a una possibilità sprecata dalla storia, esattamente come il Discorso dell'Accademia.

  —29→  

Sul versante opposto, che provvisoriamente possiamo definire del puro gioco, si trovano i falsi artistici, cioè i già citati quadri di Torres Campalans e Juego de cartas, anch'esso tutto basato sulla multimedialità del falso: infatti, su una faccia delle carte troviamo disegni apocrifi dello stesso Campalans -tassello di una rete di rinvii intertestuali che hanno come protagonista il pittore catalano- e sull'altra una serie di lettere racconti che si incrociano, si contraddicono, si rincorrono e si sfuggono, raccontando episodi della vita di Máximo Ballesteros subito dopo la sua morte misteriosa (suicidio, omicidio, trombosi?) secondo la tecnica cubista, già utilizzata nel Jusep Torres Campalans, di guardare «los objetos desde el punto de vista de Dios, que tiene mil ojos»37. La sua vita agitata e la sua personalità ambigua («inteligente y tonto, sensible e insensible, agradable y desagradable, silencioso y parlanchín, dulce y agrio, tibio y duro, tranquilo y desasosegado, apacible, alegre y de mala luna, divertido y fastidioso, confiado y desconfiado, ardiente e indiferente, humilde y orgulloso, compasivo y cruel, respetuoso y despreciativo, elegante y ridículo según las horas, los minutos o los segundos y el humor con que se soporta a los demás», come scrive Felisa a Manuela38) si vanno ricostruendo man mano che si prosegue nel gioco di carte, ma giungendo ogni volta a un risultato diverso e imprevedibile, senza vincitori né vinti perché, come avverte l'autore nella lettera-carta con le istruzioni: «Gana el que adivine quién fue Máximo Ballesteros». Non esiste un solo Máximo Ballesteros ma tanti quante sono le possibilità combinatorie, cioè infinite e imprevedibili. Gioco estremo, opera aperta in cui l'autore primario scompare non solo dietro gli apocrifi (mittenti delle lettere39) ma soprattutto dietro la struttura inarticolata   —30→   del Juego de cartas: il vero autore alla fine non è nemmeno il lettore-giocatore, ma il caso, come in ogni gioco d'azzardo e come nella vita stessa. Se è vero che «un testo è una macchina pigra che si attende dal lettore molta collaborazione»40, in questo caso il testo chiede al lettore prima di tutto di entrare nel gioco, di accettarne l'azzardo e l'imprevedibilità, e poi di collaborare in modo altamente creativo. Al di là dell'evidente e intrigante struttura ludica, anche in questo caso è possibile intravedere una fessura, un'intenzione 'seria': da una parte la critica alla letteratura e alla critica letteraria contemporanee (come nel Torres Campalans al l'arte e alla critica dell'arte) di eccessiva disarticolazione del testo e di arbitrarietà dell'interpretazione critica, dall'altra la riconferma 'filosofica' della relatività di ogni conoscenza e convinzione umana; in ogni caso, Máximo Ballesteros si impone come prototipo inconoscibile dell'uomo moderno, e Juego de cartas, paradossalmente, come antiromanzo e allo stesso tempo come l'unico romanzo possibile: «Arturo: ¿por qué te empeñas en saber cómo son -o eran- los demás? ¿Qué te importa? Sin contar lo imposible. Puedes figurártelo, pero siempre entrará en la apreciación tanto de ti como de los otros. En estos menesteres se equivoca uno constantemente. Por eso gustan las novelas: nos dan héroes de papel, hechos de una vez, en los que se toma parte de verdad. Igual sucede en el teatro: se guardan las distancias. Nadie sabe cómo es conocido, si me permites el juego de palabras. Máximo Ballesteros no fue excepción, nadie lo es. Lo cual no tiene nada que ver con la amistad de... José».

Falso pittorico e letterario evidente, esasperato dal paratesto ludico in cui si inserisce, Juego de cartas e un piccolo gioiello, opera superstite dell'altro Max, di quell'altra Spagna in cui ironia e humor avrebbero avuto diritto di esistere non come autocensura di fronte al dolore ma come libero atteggiamento di fronte alla vita. Un vero falso gioco, in cui è impossibile vincere, perché è impossibile dare credibilità all'una o   —31→   all'altra versione delle lettere, spesso contraddittorie. Ma è necessario giocare, mascherarsi, perdersi in altri io; Max Aub, parafrasando la risposta di Borges alla domanda del perché continuasse a «figurarsi altre vite di verse dalle sue», avrebbe potuto rispondere: « Perché sono un po' stanco di essere Max Aub»41 tanto più in un mondo che non riconosce come suo.



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ArribaAbajoAi confini del vero e del falso

Angelo Trimarco



1

«E in verità non siamo che immagini e somiglianze: artificio, simulacro, imitazione, copia, eco, invenzione, ritratto, arte, falsità». «La lingua, la pittura mentono di per sé. Tutto è favola, l'importante è che non si tratti di furberia. Chi è in grado di sapere cos'è l'autentico? Resta l'ingegno. L'ingegno mente alla perfezione, imponendosi a tutte le altre menzogne». Ed ancora: «C'e forse qualche altra virtù che qualifichi la condizione umana come quella di affermare il falso, sapendolo, come se fosse vero? Inventar menzogne e fare che gli altri ci credano». «Mentire, ecco la grandezza. L'arte: l'espressione più bella della menzogna. La verità pura -se pure esiste- non è bella, assomiglia alla morte. La vita umana: possibilità di mentire, di mentirsi. L'arte e la politica, le più alte espressioni dell'uomo, sono fatte di menzogne».

È abbastanza evidente che figura essenziale della biografia dedicata da Max Aub a Jusep Torres Campalans sia, appunto, il rapporto, difficile e sfuggente, fra verità e menzogna. In maniera più circostanziata, la domanda si riferisce al senso che assume l'arte, la poesia e la pittura.

La pittura e la poesia come luogo della menzogna e dell'inautentico, del simulacro e della copia. Ma -ed è bene dirlo subito- Max Aub pone questo problema non nella prospettiva di indicare o suggerire un autentico e un modello da contrapporre all'inautentico e alla copia. Quello su cui ragiona è, invece, radicalmente, l'inautentico e la copia, la menzogna e l'eco. Ma si badi, avverte al tempo stesso Campalans: «Mentire, non ingannare; fingere, non falsificare; mascherare (che con forto!), non dissimulare; inventare, non plagiare; sembrare, se si vuole -solo sembrare- non truffare; abbagliare, non beffare; e se e indispensabile, tutt'al più, prenderci beffe di noi stessi»42.

La poesia e la pittura si collocano, così, in questa prospettiva, a distanza   —34→   sia dall'autentico e dalla pienezza della verità come dall'inganno e dal plagio. Il loro spazio è, dunque, quello della finzione e della menzogna, dell'imitazione e della copia, della mimesis appunto.




2

Max Aub è, fin dall'avvio, consapevole delle difficoltà e delle ambiguità, delle incertezze. Fin da quando si interroga sul significato della biografia. Dunque, sulla sua stessa intrapresa: raccontare -per lui abituato a scrivere romanzi e commedie- la vita di un artista, ricostruen done i percorsi e le pause, le speranze e il silenzio definitivo. «Una biografia e come una trappola», avverte Aub. «Perché l'opera riesca bisogna attenersi strettamente al protagonista: descriverlo, farne l'autopsia, precisare le date, tentare una diagnosi. Evitare, entro certi limiti, ogni interpretazione personale. Esattamente l'opposto di quel che si fa in un romanzo. Mettere le manette alla fantasia, stare ai fatti. Far storia»43. E per fare storia Max Aub fa un elenco meticoloso degli avvenimenti più significativi del tempo -dal 1886, anno di nascita di Campalans, al 1914, quando lascia Parigi per il Messico e smette di dipingere- raccoglie le dichiarazioni dell'artista disperse in riviste e periodici, pubblica il Quaderno verde e le due conversazioni che ha avuto con lui a San Cristóbal.

«È come se lo avessi scomposto», annota Max Aub, «osservandolo da diversi punti di vista; e magari, senza volerlo, alla maniera di un quadro cubista. Ma coloro che lo avevano conosciuto in vita, lo riconosceranno qui? E gli altri, tutti gli altri, riusciranno a figurarselo come fu? O sarebbe stato meglio parlarne come se si trattasse di scrivere un romanzo?»44. Magari, come farà poi con Buñuel. «La storia (dirà Max Aub riferendosi proprio a Luis Buñuel) è semi-invenzione e con il tempo viene ad essere una verità variabile, condizionata dal presente».

Così, la biografia di Jusep Torres Campalans, artista inesistente che ha inventato perfino il cubismo, e il romanzo di Buñuel -di un personaggio esistente che ha lavorato a tante cose straordinarie- pongono la stessa questione. Al di là della realtà dei protagonisti -di Campalans come di Buñuel- la biografia e il romanzo s'interrogano sull'impossibilità della ricostruzione storica: un cruciverba e un enigma.

«Buñuel mi sfugge da tutte le parti, non e un Torres Campalans   —35→   qualsiasi», confessa Max Aub, a sottolineare con questo paradosso che i personaggi esistenti, a differenza di quelli inesistenti, sono ancora meno definibili.

Così, il romanzo e la biografia hanno poco a che fare con la storia. Ma, allora, la storia cos'è? Qual è il suo significato? Lo sappiamo, e semi-invenzione e verità variabile: «La storia è fatta di ceneri». E i suoi sacerdoti? La risposta di Aub è pronta e ironica: «Gli eruditi sono robivecchi e rigattieri che espongono il loro ciarpame in vetrina». La conclusione non può che essere aspra: «La storia va vestita di stracci»45.

Se le strategie della storia sono incerte, se è indifferente lavorare con personaggi esistenti o inesistenti (addirittura pone più problemi di deci frazione Buñuel che Campalans), se la ragione, impotente, non ci soccorre, cosa fare? «Si può riuscire a capire un nostro simile servendosi solo della ragione», si chiede Max Aub? Ci si può affidare soltanto ai documenti, a questi «chiodi che fissano la pelle del cadavere sul tavolo settori o»? Evidentemente no. «Tutto è verità di pareri, e qualsiasi cosa può esserne un'altra. Le immagini ingannano tanto quanto le parole. Avere qualcosa dinnanzi agli occhi non vuol dire che il fotografo, lo scrittore, il pittore siano capaci di trasmetterlo. Una è la cosa, altra chi la guarda o la copia, altra ancora chi la vede ricopiata. E così vogliono la verità?».

Per il romanzo come per la biografia il cammino è segnato: lontano dalla storia, accanto alla menzogna. «L'altro. Io sono l'altro, diceva, mentendo, Rimbaud. Nessuno è l'altro: si è sempre infinitamente lontani da essere l'altro»46. Il racconto dell'altro -di Campalans come di Luis Buñuel- e dentro questo gioco di specchi e di riflessi, qualunque siano gli accorgimenti.

Il loro posto è lungo quella striscia sottile, quasi un abisso, situato fra il vero e il falso. È il cammino della menzogna e il fascino dell'eco, l'ambiguità del ritratto. È la destinazione stessa dell'arte, territorio dell'artificio e labirinto del linguaggio, miraggio di realtà. Ci soccorre ancora una volta Campalans che nel Quaderno verde scrive: «Quando si dice mentire ci si riferisce sempre al parlare, come se dipingendo non si potesse mentire, come se dipingere non significasse, per antonomasia, mentire». Quando afferma: «Se tutto è rappresentazione, trasformazione,   —36→   e l'arte consiste appunto in questa trasmissione, che importanza ha la verità?»47.




3

«La pittura nell'Ottocento fu fatta solo in Francia e da francesi, fuori di lì non esisteva. La pittura nel Novecento fu fatta in Francia, ma da spagnoli». È l'incipit di quella scrittura singolarissima offerta da Gertrude Stein a Picasso. Appena dopo si legge: «Quando ebbe diciannove anni, era il 1900, Picasso venne a Parigi in un mondo di pittori che avevano imparato tutto quello che potevano dal vedere quello che guarda vano»48. Ora, via via che da Seurat a Matisse si incomincia a dubitare della coincidenza del vedere e del guardare, dell'occhio e dello sguardo, si aprono nuovi itinerari alla pittura, sorprendenti e imprevedibili. Si apre, fra le altre, la via del cubismo. Quel movimento inaugurato proprio da Jusep Torres Campalans: un artista mai esistito che Max Aub, con un colpo d'ala, ha fatto rivivere in un racconto di estrema leggerezza.

Ricostruendo, com'è possibile, la vita di Campalans, Max Aub disegna anche con rigore il profilo di Picasso, il suo inquieto ritratto. E, insieme al ritratto di Picasso (anzi proprio per comprenderlo meglio), Aub riscrive la storia del cubismo -dunque di Picasso, Braque, Gris, Delaunay- e delle sue radicali differenze con il futurismo, avendo sullo sfondo il contributo essenziale del surrealismo: «A me interesserebbe chiarire com'è stato possibile che nella nostra epoca, figlia del XIX secolo, cosi razionalista, sia potuto sorgere un movimento come il surrealismo, basato sull'irrealtà, e imporsi in modo tosi costante e duraturo. O credi che i fatti del maggio dello scorso anno a Parigi non avessero niente a che fare con il surrealismo», chiede Max Aub a Buñuel?49.

Picasso è, dunque, il segreto di Campalans, la sua ossessione, la sua ombra, l'altro, inaccessibile, a cui accostarsi, di cui avere qualche memoria e, forse, nostalgia. Difatti, quando Jusep Torres Campalans in contra Max Aub a San Cristóbal non fache chiedere di lui. «Ma usted sul serio conosce Picasso?». «Sul serio conosce Pablo? E come sta?». Oppure: «Sul serio Pablo e diventato comunista? Non ci credo», «Dovrebbe   —37→   nascere un altro Picasso, ma passerebbe troppo tempo»50: su queste parole si chiude la conversazione e con la conversazione anche il testo, questa biografia che non è una biografia. Ma non è neppure un romanzo. O è l'una e l'altro (e qualcosa di diverso).

«E come dipingi?», domanda Campalans. «Con la testa», risponde Picasso. Infatti, commenta Max Aub, Picasso «lavorava senza modelli. Ma Jusep non si convinceva». «Sì, va bene, bisogna ispirarsi alla natura, prendere appunti. Ma è solo per ricordarsi. Poi ci si chiude nello studio e si dipinge (...). Si dipinge con la testa», replica Picasso51.

Campalans è sconcertato perché Picasso dipinge senza modello, con la testa, a mente. È un punto che si ritrova, quasi ad introibo, nel Picasso di Gertrude Stein. Dice: «Fra il 1904 e il 1908, ricordo benissimo che quando la gente, o perché costretta da noi o spontaneamente, guardava i disegni di Picasso, arrivava sempre a questo commento stupefacente, che era del resto anche il nostro: per fare disegni tanto meravigliosi era impensabile che Picasso non si fosse servito di un modello, e invece non ne aveva mai avuto»52.

Campalans incontra una prima volta Picasso a Barcellona e, più tardi, quando si trasferisce a Parigi. Quando decide di fare l'esperienza dell'arte, del cubismo. Con Picasso, a Parigi, intrattiene rapporti stretti di amicizia: con lui, nel suo studio, si sente libero di mettere a nudo il suo cuore, come avrebbe detto Baudelaire, senza pudore né reticenze.

Insieme a Picasso Campalans sperimenta le suggestioni della vita e i labirinti dell'arte: i primi amori e i primi incontri nei bistrot e nei bar con critici, poeti e artisti che segneranno il nostro secolo. Dunque, non solo Braque, Gris e Delaunay, ma anche Max Jacob e Apollinaire, Diaghilev e Rilke, Vollard e Gertrude Stein. Una galleria di personaggi d'eccezione e un fermento d'idee e di progetti senza paragoni costituiscono, così, la scena sulla quale si affaccia, fra il 1908 e il '14, Jusep Torres Campalans. Uno scenario al quale l'artista dará un contributo decisivo: difatti, il suo lavoro d'artista, d'inventore del cubismo, si svolge in questi anni. Negli anni di Picasso, scanditi da Demoiselles d'Avignon (1906-7) dalle ardite scompaginazioni dell'oggetto e dello spazio -il cubismo analitico- dalla presentazione diretta della realtà sulla superficie   —38→   dell'opera (il cubismo sintetico). Critica della rappresentazione, intransitività dell'opera -la peinture al posto del tableau-, liquidazione di qualsiasi riferimento alla natura, sottolineatura dell'importanza della riflessione nella pittura (Kahnweiler assicura che è stato Apollinaire ad usare per primo l'espressione peinture conceptuelle) sono, certo, alcuni dei passaggi di questo discorso.

In questo pianeta, attraversato da forze ed energie diverse, da intenzioni e risoluzioni differenti, Campalans, si è ricordato, sceglie Picasso. Tace (o dice pochissime cose) di Braque, l'altro dioscuro del cubismo, dimenticando (o rimuovendo) l'intreccio delle questioni che legano Braque a Picasso: quel loro inseguirsi sul filo teso delle innovazioni linguistiche. E addirittura ostile a Juan Gris («È un borghese». «A fare il cubista si è messo solo quando ha visto che era una strada facile. Gli riusciva più comodo. È un señorito»53). Ma è ostile a Gris, credo, anche per ragioni più serie. Una volta ha detto: «Se rimarrà qualcosa di Gris e di Gleizes, saranno le loro teorie. Ma io ne dubito». È, appunto, quest'eccesso di intellettualismo che non piace a Campalans (e a Max Aub). Dunque, proprio quella prospettiva segnalata da Kahnweiler e, più di recente ripresa da Gehlen, che l'ha ricondotta addirittura nell'area del neokantismo, facendo tanto irritare Gadamer: «(...) Il neokantismo, in sé tutt'altro che rivoluzionario, poco prima della sua povera fine, avrebbe provocato la più grande rivoluzione della pittura europea dai tempi di Giotto. Nulla potrebbe essere più incredibile», ci fa sapere di fatti Gadamer54. Non ritiene feconda la scelta di Robert Delaunay verso l'orfismo.

Campalans, nel raccontare e tracciare la storia del cubismo nel nome di Picasso, sottolinea anche un altro lato significativo di questa ricerca, che tende a fare dell'oggetto plastico uno spazio autonomo di segni. È, naturalmente, il tema dell'arcaico, del primitivo che, del resto, è un filo intorno al quale si svolge, in maniera diversa, l'intera vicenda dell'arte dei primi trent'anni del nostro secolo al declino. Ma il riferimento -forse meglio la centralità- dell'arcaico, nelle parole di Campalans e nelle considerazioni di Max Aub, assume un'importanza e una curvatura non trascurabili.

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Perché il primitivo, l'arte negra, l'arcaico? «(...) I pittori veramente grandi sono quelli che lasciano intravedere -non hanno potuto far di più- quella specie di vortice che ci portiamo dentro. I primitivi, Michelangelo, Goya, Van Gogh: fa lo stesso. Ed è questa -anche se egli non lo vuole ammettere- la strada di Pablo». E, a proposito dell'arte negra, Campalans precisa: «Che possano influenzarci e un'altra cosa: e non si tratta di un'influenza maggiore di quella di altri primitivi -almeno per noi catalani- perché quello che ci preme sono le radici, gli istinti». «L'istinto è la radice del progresso. Se ci lasciassimo guidare solo dalla ragione saremmo esseri da partogenesi: come i nostri padri»55. Il primitivo e l'arcaico è, dunque, per Campalans il luogo di quel vortice che ci assilla dal di dentro, delle radici e dell'istinto. Ma anche di qualcosa di diverso, come si affretta a puntualizzare Max Aub in una nota assai illuminante. «Chiunque conosca i primitivi catalani, in pittura e in scultura», osserva Aub, «non ha bisogno di cercare altri precedenti alla rivoluzione prodotta dalle Demoiselles d'Avignon e dalle opere di quel periodo». Così (ed è questa la sua conclusione), il cosiddetto periodo negro, dato che ci si ostina a far uso di certe etichette, bisognerebbe chiamarlo periodo romanico-catalano»56. Dunque, l'arcaico come luogo delle radici e dell'istinto è anche o soprattutto ritorno alle origini culturali, appunto alla tradizione romanico-catalana, di Campalans come, naturalmente, di Pablo Picasso.

Nel racconto di Jusep Torres Campalans (e nelle annotazioni più esplicite di Max Aub) si delinea, attraverso fatti privati e pubblici -artistici, sociali e politici- un quadro d'insieme dei primi dieci-quindici anni del Novecento. Insieme alla nascita e agli svolgimenti del cubismo, da Demoiselles d'Avignon (ma numerosi e puntuali sono i richiami all'esperienza picassiana precedente, al periodo blu in particolare) allo scoppio della guerra, al 1914, assistiamo all'insorgere di vicende politiche travagliate e al maturare di passioni anarchiche. Anche da questo punto di vista Campalans è una figura esemplare, non c'e dubbio. Anarchico per vocazione, non esita a riconoscere che «sì, (...) l'anarchia è meno scientifica del socialismo, ma e più umana. Non servirà a nulla magari, però è contro tutto, e questo è un bene. Lottare e morire per un'utopia:   —40→   mi va»57. Così, per Campalans, come per tanti pittori, musicisti, scrittori della sua generazione, utopia anarchica e utopia artistica finiscono per coincidere.

Campalans (e con lui Max Aub, come dimenticarlo?), assumendo, si è ricordato, Picasso come cifra del cubismo, fa sfiorire nell'ombra il lavoro di Braque, Gris e Delaunay. Ma, al tempo stesso, radicalizzando certe osservazioni di Apollinaire, dà del futurismo un giudizio assai limitativo se non proprio negativo («E i futuristi: che Dio, nella sua infinita misericordia, li tenga sempre presenti»). Ambivalente è, invece, la valutazione che Campalans ci offre della Grande Astrazione. Sicuramente e meno vicino ed attento alle ricerche di Kandinskij, ma certamente ha con Mondrian un rapporto positivo, umano e artistico («Mondrian e un caso a parte. Si rende conto che quel che cerca non e pittura ma un mondo plastico. È nella proporzione -nelle proporzioni- che troverà pace. Lo invidio. Mi è accaduto poche volte di vedere un uomo così equilibrato. Questo nonostante la sua teosofia, o magari a causa di essa»). Un giudizio diverso da quello derisorio con il quale affonda Kandinskij («Anatema a Kandinskij! A tutti i costi! Che si dedichi a comporre musica». Oppure: «Kandinskij vide una tela, non riuscì a capire cosa rappresentasse (mi assicurano che si trattava di un suo quadro appeso alla rovescia) e alla fine si decise per i tessuti. Avrà una durevole discendenza: nei telai»58).




4

La biografia di Jusep Torres Campalans è articolata su due piani narrativi (fra di loro evidentemente connessi). C'è il livello del racconto direttamente costruito da Max Aub e c'è il Quaderno verde, che comprende gli scritti di Campalans dal 1906 al 1914. L'anno dell'abbandono definitivo di Parigi e della pittura con la scelta di andare a vivere nelle montagne messicane fra gli indiani. Per quest'intreccio la vita di Campalans è insieme ritratto e autoritratto, un gioco di riflessi inquietanti. Il ritratto e l'autoritratto di un personaggio inesistente. Di un personaggio che, parlando o facendo parlare di sé, dà notizie di Picasso e del cubismo, dell'astrazione e di Mondrian, ci fa riflettere sulle relazioni fra arte e politica, ci fa attraversare, come in una vertigine, la storia dell'a vanguardia parigina.

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Un personaggio che Max Aub costruisce utilizzando tutti i topoi eroici delle vite eccellenti degli artisti dell'avanguardia. Anche il finale di partita non sfugge a questa scelta, anzi la esalta. L'elogio del silenzio dopo il tumulto e gli eccessi, dopo l'arte, e un filo che lega -lo sappiamo- il cammino della poesia e dell'arte da Rimbaud a Duchamp: Duchamp che si ritira a giocare a scacchi per il resto della sua vita. Naturalmente, quanto affascinante (ma improbabile) sia stata questa tesi oramai è chiaro.

Ma, a leggere con attenzione, ci rendiamo conto che anche Campalans non crede a questo mito se a Max Aub, nella conversazione pomeridiana a San Cristóbal, dice: «Qui sono vissuto proprio come un pittore, senza far altro che osservare»59. Dunque, se pure ha smesso di dipingere (per ragioni diverse, in due differenti occasioni sono andate perdute tutte le sue opere), se anche ha rinunziato a scrivere dell'arte e degli artisti non ha, però, dimenticato di vivere come un pittore. Non ha rinunziato ad esercitare la vista e lo sguardo, l'osservazione e la mente.

Max Aub, così, scrivendo della vita di Campalans e della sua pittura, ha tracciato un ritratto di Picasso e del cubismo, delle avanguardie parigine fra il '10 e il '20. Scrivendo di Buñuel ha, invece, disegnato un'immagine di sé e della sua generazione. Dell'importanza e delle radici del surrealismo. Picasso e il surrealismo: i due miti di Max Aub (si direbbe). Più radicalmente, Max Aub vuole sottolineare come il romanzo, la biografia, l'autobiografia siano tutte scritture impigliate nella crisi del soggetto. Una «trappola» che, disperatamente, si sforza di evitare decentrando e spostando il soggetto, moltiplicandolo e riducendolo a simulacro, a un défilé di maschere e di copie.





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ArribaAbajoIl gioco della menzogna

Michele Cesaro


Comincio subito con il dirvi un mio imbarazzo, un mio pentimento e anche a farvi delle scuse. Quando sono stato interpellato per questo incontro, ho detto forse si un po' facilmente. Però, se allora dissi sì, vuol dire che mi era stato proposto un tema che mi interessava particolarmente. Tuttavia, ho detto un sì un po' incauto. Quando mi è arrivato l'originale opuscoletto di presentazione, e ho visto l'elenco dei relatori mi sono spaventato, perché non mi sentivo all'altezza di accompagnarmi a questi illustri relatori. E, quindi, mi sono detto: ho fatto un passo falso; ma oramai il passo era fatto e bisognava onorare l'impegno. E devo farvi anche delle scuse perché probabilmente il discorso di questa sera non sarà al livello degli altri, anche se poi ce ne sono tanti di livelli e starà a voi scegliere quello che ritenete più giusto.

Le considerazioni che svolgerò sono riferite più all'evento, all'a zione che Max Aub produce, che non al contenuto letterario, artistico dell'opera, e forse non poteva non essere così, dato che l'hanno fatto meglio e più approfonditamente i relatori che mi hanno preceduto.

Vorrei iniziare ricordando dei versi che scriveva Pessoa: «La rappresentazione ha con verità, tutto il potere attrattivo della falsificazione. A tutti piacciono i falsari; è un sentimento umano ed istintivo»60, questo per dirvi che i sentimenti che provo verso Max Aub sono proprio di gioia, di piacere, di simpatia. I falsari piacciono. Ma non sempre è così. La cultura è fondata su un sistema di valori, ma proprio l'individuazione di tale sistema, ne stabilisce, quasi automaticamente, uno analogo di disvalori. Ad esempio un individuo potrà essere giudicato caloroso nella realtà culturale meridionale e invadente ad una latitudine differente. In sostanza, sono i codici fondamentali di una cultura (quelli che   —44→   ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche) che definiscono fin dall'inizio, per ogni uomo, gli ordini empirici con cui avrà da fare e in cui si ritroverà61.

Ogni società possiede un sistema di norme prescrittive e proscrittive, che attribuiscono alle condotte umane valenze positive e negative. Certo tali criteri di valutazione sono soggetti a modificazioni in relazione ai cambiamenti del clima culturale, sociale ed economico.

Tutto il comportamento acquista una posizione di centralità o di eccentricità nella mappa delle regole di interazione, a seconda della funzionalità o disfunzionalità ad un determinato sistema di valori sociali.

Abbiamo pensato di applicare queste peculiarità del contesto culturale per tentare di definire le funzioni della comunicazione evitando le normali classificazioni. In altri termini è sembrato interessante considerare che il rapporto centralità/eccentricità che vige nelle situazioni sociali, potesse essere applicato al campo della comunicazione; infatti anche a livello comunicativo è possibile distinguere tra funzioni centrate, eccentriche e egocentriche a seconda delle finalità che sottendono l'interazione, cioè in relazione al raggiungimento degli scopi prefissati.

Gli scopi comunicativi connotati con valenza positiva nella nostra geografia sociale sono moltissimi, enumerarli diventerebbe difficile e forse inutile. Basterà ricordare che tutte queste funzioni della comunicazione, considerate in relazione all'accettabilità sociale, sono centrate nel senso che permettono il raggiungimento di risultati considerati positivi in una specifica cultura. La presenza di questo fattore di unifica zione riduce il grado di eterogeneità delle singole funzioni e aumenta il livello di generalizzazione degli enunciati.

Le funzioni eccentriche della comunicazione ruotano intorno a tre meccanismi psicologici: la mistificazione, la prevaricazione e l'inganno. La loro caratteristica comune e rappresentata dalla finalizzazione a risultati idealmente periferici rispetto a quelli socialmente privilegiati che svolgono le funzioni centrali. L'osservazione che le funzioni centrate o eccentriche si collocano su riferimenti ideali, su concezioni dell'uomo e del suo modo di essere al mondo, e che non sempre trovano riscontro nella realtà sociale, appare indispensabile.

Ora alle funzioni eccentriche viene spesso conferito carattere di patologia   —45→   e disfunzionalità solo per il fatto che esse non rientrano in quei valori idealmente perseguiti o in quanto finalizzate a scopi che la società, o un certo tipo di cultura, considera con disfavore. Eppure dal mimetismo elementare alla visione poetica, la capacità linguistica di velare, disinformare, lasciare ambiguo, ipotizzare ed inventare e indispensabile all'equilibrio e allo sviluppo dell'u omo nella società. Se la comunicazione finalizzata alla menzogna rientra nella categoria delle funzioni eccentriche è perché la nostra cultura -non ha importanza che tutti mentano- assegna idealmente un valore positivo alla sincerità ed uno negativo alla menzogna. Ma questo non impedisce agli uomini di ricorrere spesso e volentieri a comportamenti intesi a fuorviare gli altri, a nascondere la verità, a far apparire le cose per quello che non sono. Forse non c'è nemmeno una legittima attività o relazione quotidiana in cui il soggetto non esegua pratiche nascoste che sono incompatibili con le impressioni che intende favorire negli altri62.

Altra peculiarità, socialmente mal vista, di queste funzioni eccentriche consiste nel fatto che esse sembrano destinate a seguire un processo evolutivo degenerativo, in quanto acquisterebbero una dinamicità per versa che de termina l'uscita dalla categoria dell'eccentricità per finire in quella dell'interdizione sociale o della sanzione penale.

Quello che interessa qui non è certamente l'estremizzazione o l'inaccettabilità della degenerazione di queste funzioni, quanto la dinamica a livello eccentrico cioè disfunzionale in relazione a valori ideali ma non a quelli concreti di un determinato sistema. Una delle funzioni eccentriche più studiate è senza dubbio quella dell'inganno e della menzogna, in tutte le forme che si avvalgono dello strumento comunicativo, verbale e non verbale.

Gli psicologi si sono interessati moltissimo al problema del mentire, individuando due modi principali di mentire: dissimulare e falsificare63. Nella dissimulazione chi mente nasconde certe informazioni senza dire effettivamente nulla di falso, sono situazioni tanto comuni da essere la trama della nostra quotidianità, acquista una curiosa valenza ambivalente: il sentimento che vogliamo nascondere non ha senso se non viene visto. Bisogna che il nascondere si veda, come sostiene Barthes: «sappiate   —46→   che io sto nascondendovi qualcosa»64. Chi dice il falso si spinge oltre: non solo nasconde l'informazione vera, ma presenta un'informazione falsa come se fosse vera. Spesso è necessario combinare le due operazioni per portare a termine l'inganno.

Nel caso di cui discutiamo, senza alcun dubbio, Max Aub mente, produce «falsi», utilizza la menzogna, gioca con la menzogna. Jusep Torres Campalans è un esempio emblematico di falso. Aub architetta un inganno. Produce un testo sapendo di mentire. Del resto solo chi conosce la verità può mentire. Il sapere è implicito nella menzogna. Nella menzogna c'è una lucidità di visione sui propri fini a differenza del dire il falso per errore, dove prima si mente e poi si conosce la verità. La menzogna possiede una funzione di «ottenimento» dove l'obbiettivo pratico da ottenere è evidente. È chiaro che l'inganno attraverso la menzogna può essere rivolto verso gli altri o verso se stessi. Rivolto agli altri e per ottenere, per fare qualcosa, dunque orientato verso il futuro. Rivolto a se stessi è per non fare, e quindi rivolto alla conservazione del passato. Quello che perpetra Aub e senza dubbio del primo tipo. Egli tenta di passare dalla menzogna del gioco al gioco della menzogna, dove l'utilizzo del chiasma esprime concetti dialetticamente in contraddizione. Così non si vive per mangiare, ma si mangia per vivere e via dicendo. L'interpretazione del chiasma porta ad ipotizzare l'esistenza di una antitesi tra desiderio e repressione, si pensi che filosofia = desiderio e miseria = repressione65. Il chiasma esprimerebbe così due diversi livelli di mediazione tra il desiderio e la repressione. Pertanto nella menzogna del gioco la parte desiderante e rappresentata dalla menzogna, e il gioco e la dimensione repressiva.

Aub vive costretto all'interno di una cultura fatta di regole rigide che mente a se stessa per perpetuare un gioco fatto di vecchie logiche ripetitive, poco stimolanti e, perciò, repressive e autoriproduttive. Da tutto questo cerca di uscire passando al gioco della menzogna, dove il gioco diventa la parte desiderante e la menzogna la parte repressiva. Egli sente in maniera forte ed inequivocabile, per dirla con Bateson, che: «coloro ai quali sfugge completa mente l'idea che è possibile avere torto, non possono apprendere nulla, se non la tecnica»66. La cultura   —47→   alla quale Aub cerca di sfuggire è proprio quella della tecnica. La tecnica si configura come il mondo interno della replicazione e della tautologia, il mondo della certezza e dell'illusione del potere che non lascia spazio al dubbio, poiché non esce dalle premesse date di un unico gioco. L'idea della possibilità di aver torto è collegata alla discussione delle premesse ed istituisce la contingenza, l'ingresso nella creazione di altri giochi. Wittgenstein ha descritto con estrema lucidità tale atteggiamento: «ma come può il nuovo gioco aver fatto cadere in disuso quello vecchio? Ora vediamo qualcosa di diverso, e non possiamo più continuare a giocare ingenuamente, come prima. Da un lato il gioco consisteva nelle nostre azioni sulla scacchiera; e ora potrei fare queste mosse bene come prima. Ma dall'altro lato era essenziale al gioco che io tentassi ciecamente di vincere; e questo, ora, non posso più farlo». L'idea dell'«altro gioco», di una possibile molteplicità delle premesse, permette di pensare il nuovo e la diversità, può recuperare il senso della «follia», gestire il conflitto interpersonale e la complessità interattiva.

Il concetto di gioco porta ad uscire dall'individuale, dal dentro dell'uomo; deborda rispetto ad esso per indicare ciò che si svolge fra gli uomini67. Eppure, il riconoscimento della valenza dinamica e interattiva che la metafora del gioco porta al sociale viene poi contemporaneamente neutralizzato nella dimensione dell'irreale, dell'innaturale o del perverso che tale concetto include, ed esso viene così posto ai margini dell'interazione umana normale.

Perché questo accade? Come mai i giochi, e l'uomo che gioca, fanno paura? Il concetto di gioco evoca interazione, ma contemporaneamente incertezza, casualità, relatività, contingenza. Il gioco è interattivo: rende evidente l'impossibilità del singolo di costruire, sviluppare e de terminare gli esiti delle proprie mosse da solo. È contro l'onnipotenza. Il gioco è incerto: il singolo giocatore non può prevederne con sicurezza i risultati. Il gioco è casuale, ovvero non controllabile in modo deterministico. Nella vita reale, invece, devono esistere sicurezza e prevedibilità. Il gioco è relativo: l'utilità ad esso connessa è volta a volta definita dai partecipanti; allude alla mancanza di un valore di riferimento univoco ed immutabile. È privo di valori assoluti.

Le regole del gioco si danno solo per convenzione, e possono essere trasgredite. Il gioco è contingente, non è uno; la loro incertezza, relatività   —48→   va contro l'opinione rassicurante che vi debbano essere una logica ed un valore necessari ed unici; necessità rassicurante perché permette di evitare la consapevolezza e l'imbarazzo dell'arbitrarietà e della scelta.

In sintesi, il gioco è interazione complessa, che fa entrare nel mondo dell'incertezza; non a caso viene spesso usato nel linguaggio comune per indicare una situazione ostile e pericolosa in quanto incomprensibile e sconosciuta, che non si può di conseguenza prevedere e controllare.

Il gioco della menzogna, dell'inganno, del falso che Aub produce si inserisce nella logica del desiderante e dell'interattività. Quando la convinzione che in realtà vi sia una sola modalità di relazione (un solo gioco), quella giusta, quella vera, quella che gioco io, stabilita una volta e per sempre altrove, dalle istituzioni, dall'ideologia, viene messa in dubbio dall'incontro con un'altra modalità relazionale (un gioco di verso), ecco che questa può apparire un gioco, e venire allora relegata nel non vero, posta ai margini del reale.

Da sempre nella letteratura e nell'arte l'ignoto ha le connotazioni del mostruoso. Se si pensa che il vero debba essere qualcosa in sé, al di fuori della sua continua costruzione ed invenzione, allora il vero non verrebbe giocato.

La pluralità dei giochi possibili, e l'uomo che gioca, producono incertezza e possono dunque fare paura: il gioco indica che non vi è una necessità, come non vi è una logica al di fuori dell'interazione; ma uscire dall'interazione, ossia non giocare, sia pure con l'inganno, è impossibile.

Allora lasciatemi concludere così come avevo iniziato ricordando Pessoa: «Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente».



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