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ArribaAbajoVerità e nostalgia d'avanguardia nel Torres Campalans di Max Aub

Dario Puccini


Il «falso» più falso di Max Aub è senza dubbio la sua monografia immaginaria del Jusep Torres Campalans (1958). Per due ragioni principali: primo, perché si adegua a quello che viene definito «falso» per antonomasia, il «falso» nell'arte figurativa (è frequente e abituale sentir dire «è un falso Van Gogh», mentre è molto meno facile che si dica «è un falso Milton o un falso Proust»); secondo, perché esso mima alla perfezione un prodotto esistente e di robusta tradizione e legittimità: la monografia d'arte, condensata, per ragioni che si vedrà, in biografia.

Con il «falso» proprio dell'arte figurativa il libro di Aub ha poi un altro tratto in comune: esso ha dato modo all'autore di realizzare uno «scoop», una sorpresa, un «colpo mancino» o una beffa ai critici d'arte messicani e nordamericani, se è vero, com'è vero, che il libro, preceduto da due esposizioni di quadri «recuperati» (una alla galleria Excelsior di Città del Messico e una in una galleria di New York), ha ingannato qualcuno di quegli stessi critici d'arte o ha comunque seminato tra di essi sconcerto o perplessità. Solo più avanti, quando Gallimard, nel pubblicare il libro, volle saperne di più su Campalans, pare che Aub abbia rivelato la sua beffa e, come scrive Giuseppe Cintioli, primo e unico traduttore in italiano del libro, allora si parlò a Parigi del «canard le plus vertigineux du siècle».

Certo, un «falso» per essere tale deve essere pari a un calco, a una riproduzione fotografica, a un'immagine allo specchio come scrive Gracián nel distico d'apertura: insomma, in quanto falso -e qui il paradosso- deve essere al massimo veritiero, conforme a una verità stabilita e peraltro stabilita su tanti e tanti dettagli, e sopra un reticolo di cose reali ed esistenti. Ed esso diventa «falso» in grazia e nella misura in cui ricrea alla perfezione un altro reticolo di figure e di particolari, questa   —156→   volta tutti inventati. Ma il ricorso alle cose e alle persone reali rimane indispensabile.

Pertanto si può scoprire il trucco di Aub in uno dei distici che, tra la frase di Gracián e una di Ortega y Gasset, apre il libro: «Come può esistere verità senza menzogna»?, dal nostro autore attribuita a un imprecisato e forse (anche questo) inventato autore del Settecento spagnolo. Comunque, Aub si sarebbe potuto ispirare benissimo a un detto di Cervantes, che appare in questo caso persino più calzante: «la menzogna è tanto migliore quanto più sembra veritiera». Non va sottovalutato il fatto che da qualche tempo, in Italia, questo genere di concezione letteraria («la letteratura come menzogna») ha avuto nuovi e pervicaci sostenitori: da Angelo Maria Ripellino a Giorgio Manganelli a Mario Lavagetto.

Aub inoltre lascia una traccia della propria invenzione fin dal nome che sceglie per il suo personaggio: Jusep (una deformazione dialettale di Josep) e Torres Campalans: che fanno pensare a una torre o meglio a un campanile con le sue campane...

Ma vediamo ora come Aub procede per dare verità al suo prodotto. Per prima cosa egli l'ha fornita, dal punto di vista strutturale, di ogni ingrediente necessario al suo scopo: una premessa, una biografia del pittore, un opportuno inquadramento storico in forma di cronologia, due interviste realizzate da Aub in una zona (come si vedrà) sperduta del Messico, il catalogo completo delle sue opere e una serie di riproduzioni in bianco e nero e a colori dei vari quadri di Campalans. Il tutto corredato da una fitta rete di note, tolte, per lo più, da libri esistenti. E ben scelte.

Poi, come secondo espediente, egli si è avvalso in grande copia e profusione della «testimonianza» (ovviamente falsa) di persone reali. Tutto il libro -occorre sottolinearlo- è basato su questa rete di riferimenti reali. Ma basta già il suo «Prólogo indispensable» e poi gli «Agradecimientos» perché Aub semini il suo scritto di nomi e di testimoni in carne ed ossa. Nel «Prologo» si racconta appunto l'incontro di Aub con il suo personaggio: esso ha luogo nello stato di Chiapas, nel Messico meridionale (portato di recente alle cronache dei giornali) dove l'autore apprende della esistenza di un vecchio pittore, appunto Campalans, che, fuggito per intima riprovazione di anarchico, dall'Europa in guerra nel 1914, si è rifugiato per l'appunto in un luogo remoto   —157→   della regione di Chiapas, dove vive in mezzo agli indios chamulas.

E qui cominciano appunto i primi riferimenti a nomi di persone reali. Non conosco Franz Blom e Gertrude Duby, ma forse dovevano essere due europei (due antropologi?) che vivevano allora a San Cristóbal Las Casas, la cittadina più famosa della regione: comunque sono loro che dànno ad Aub le prime notizie su Campalans («un pittore che ha abbandonato Parigi nel 1914», e così via) e che glielo indicano proprio là, seduto in un caffé all'aperto. Più tardi, a Parigi, Aub ne parlerà con Jean Cassou, scrittore famoso e gran conoscitore di cose spagnole e ispanoamericane; e Cassou gli snocciola altri nomi di personaggi reali, perché egli possa ottenere maggiori ragguagli: Picasso, Sabartés, Camps, Rosselló, Alfonso Reyes. Qualche pagina più avanti Aub ci parla di Paul Laffitte, collaborazionista e amico dei nazisti, che gli offre tutta una versione razzista del cubismo (corrente artistica dove Campalans eccelse), facendo, a sua volta, i nomi degli Stein, Gertrude Stein in testa, la famosa Gertrude Stein, inventrice della «lost generation» e di Kanhweiler. Ma, ripeto, tutto il libro e specialmente l'edizione spagnola di Alianza Editorial, preparata da Aub prima della morte (1972), ma pubblicata nel 1975, che reca molti disegni e persino un fotomontaggio (dove Campalans appare accanto a Picasso a Barcellona), tendono ad avallare il fantasma di Campalans con mille riferimenti reali e concreti e precisi e indiscutibili...

E a questo punto vi è anche da dire -a proposito dei quadri e dei vari schizzi di Campalans- che Aub si rivela persino pittore e grafico assai dotato, capace di inventare segni, anzi una storia di segni che segue più o meno la vicenda di un pittore come Picasso, con i suoi vari periodi «rosa» e «azzurri» e la sua fervida incursione nel cubismo. Non manca nulla, per ricreare il «falso» in tutta la sua «verità».

Ma la mia relazione (o chiacchierata), oltre alla «verità» del «falso», s'intitola alla nostalgia che Aub prova fortissima per la prima grande avanguardia. Non è infatti esagerato affermare che il nostro secolo, forse da molti punti di vista, ma certamente dal punto di vista artistico e letterario, si racchiude tutto nei suoi primi 30-40 anni: da Einstein a Charlot, da Proust a Joyce, da Picasso a Stravinsky, da Mallarmé a Pirandello e così via. Stanno quasi tutti la dentro i grandi mutamenti e le grandi realizzazioni del secolo, non solo in arte ma anche in altri accadimenti:   —158→   ivi compresa la rivoluzione messicana, la rivoluzione russa e la guerra civile spagnola. E Aub, a proposito del suo Campalans, potrebbe dire come Flaubert della sua Madame Bovary, «Campalans c'est moi».

E ora scomponiamo tutto questo nei suoi particolari. L'ambiente storico in cui Max Aub cala il suo incandescente personaggio e quello scorcio dei primi anni del nostro secolo che due guerre mondiali e un'infinita di avvenimenti drammatici hanno reso stranamente remoto, ma che Aub ama e conosce alla perfezione. Ama e conosce, affermo: perché sono competenza profonda e amore radicato quello che il nostro scrittore sfoggia ed esibisce qui in abbondanza. E ciò già si rivela nella cronologia, che indica tanti segreti amori del nostro autore (bisognerebbe commentarla dettagliatamente), e che va dal 1886 (anno di nascita di Campalans) al 1914 (anno in cui, come qui prima è stato detto, Campalans scompare misteriosamente e cessa di dipingere). Aub ordina la sua cronologia in nascite e morti, in prodotti letterari artistici teatrali e scientifici, e in avvenimenti politici.

Stravagante e avventuroso, anarchico e credente in Dio, artista d'istinto instabile e d'illuminate consapevolezze, regionalista (cioè catalanista) e cosmopolita, visionario e preveggente come un sognatore, un utopista e un realista (almeno nel senso di persona sempre rapportata alla vita), uomo scontroso e insieme generosissimo, amico e amante devoto ma tutto preso da passioni universali, Jusep Torres Campalans attraversa quegli anni in veloce traiettoria: amicizie, conoscenze, incontri, scontri, odii e amori. E riesce a dar calore di umanità e rilievo di verità ora alla primitiva Barcellona del primo Pablo Ruiz Picasso e di Francisco Ferrer; ora alla Parigi del cubismo e del futurismo, in pieno fermento d'opere e d'ingegni, con i primi piani di Max Jacob, Juan Gris, Apollinaire e di nuovo e sempre Picasso; ora al linguaggio demiurgico dei pittori e alle loro perentorie polemiche; ora alla atmosfera sciovinista della Francia del '14; ora, infine, al mondo primitivo e incontaminato degli indios Chamulas, in una delle zone più impervie del Messico, dove Campalans si ritira a vivere e a morire.

Il nodo centrale del libro -quello che gli conferisce autorità di saggio, di sondaggio d'una realtà, di vivacissimo romanzo pastiche, e per sino di attualità quasi polemica- è la cordiale, affettuosa e pertinente   —159→   descrizione dell'avanguardia. Che, veduta nelle sue ragioni ambientali, poetiche e ideali, non assomiglia affatto a uno «sperimentalismo» (adopero la parola d'oggi) di forme e di linguaggi soltanto, ma si giustifica -ecco una lezione interessante per certi avanguardismi ricorrenti e talora epidermici- nei suoi valori di scoperta e di rivolta, di crisi e di mutamento. Nei quali il movimento anarchico, inteso non in senso aggettivale (come quando si suol dire: «quell'artista è un anarchico») ma sostantivo e storico, ha lasciato un'impronta non effimera e personalità rilevanti. «Lo que yo querría -añadía Torres Campalans- es una pintura de acción directa, una serie de atentados que hicieran saber a la humanidad que existimos, que queremos un mundo más justo». E ancora: «Hay que llegar a una pintura que no pase de moda, que no sea una moda sino un modo de pintar. Un modo humano de pintar; no una vil o fiel copia, por buena o discreta que sea. Una pintura inventada, genial -no ingeniosa; nada de donaire-, un relámpago. Nada de pupila ni de habilidad. Que la gente no diga: ¡Qué bien está!, sino que se sienta anonadada ante algo nuevo, creado...» (Non si dimentichi che tutto questo Campalans lo dice a Picasso, nel momento in cui questi dipingeva le «Demoiselles d'Avignon»).

O ancora più incisivo e polemico ciò che Campalans affermerà, in prospettiva, dal balcone di una sorta di pre-posterità, non lontano dalla morte, nel '55: «Hacer hoy un Mondrian parece la cosa más fácil; pero prueban y prueban y se cogen los dedos. Y eso, para un pintor... Todos estos abstraccionistas de hoy... Un salto atrás. Se metieron en la fosa de Mondrian y se arrastran allí como gusanos. Babosos. Mondrian tenía el genio de la proporción. Es la expresión perfecta del mundo protestante, el capitalismo llevado a su colmo: la avaricia. Con menos no se puede llegar a más: ideal del rendimiento y del interés compuesto...».

Queste e altri frasi, pronunciate tutte dall'interno della avanguardia -la prima e grande avanguardia- dimostrano che Max Aub si è sentito sempre prigioniero del suo personaggio. Così accade a tutti i grandi creatori. E non acaso nella dedica che mi fece a Roma al Campalans, in edizione italiana, chiama la sua creatura, il personaggio Jusep Torres Campalans, «mi perseguidor». Da questo e dalla profonda immersione che Aub compie con il suo libro nell'avanguardia storica si può dedurre una constatazione che vale per tutta l'opera di questo geniale scrittore   —160→   spagnolo: è insomma indispensabile leggere il Campalans come se si trattasse della enunciazione di una poetica, ovvero di una linea estetica che coinvolge e che vale per ogni cosa di Aub: teatro, romanzo, racconti, saggistica. Aub -voglio concludere- non si è mai staccato dall'avanguardia e anzi l'ha saputa rivivere e ravvivare in mille maniere.



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ArribaAbajoUn Sinaí imposible: entre la verdad, la superchería y el deseo

Pilar Moraleda García


En 1982, diez años después de la muerte de Max Aub, apareció en España la obra Imposible Sinaí231, una de sus antologías apócrifas. Se trata -según reza en la contraportada- de «un apócrifo múltiple, patético, polimorfo, en cuyos mil rostros se halla cifrada una de las más desgarradoras tragedias de nuestro tiempo». Entre los textos antologados predominan los poemas, aunque también hay varias prosas, alguna carta, un diálogo...; tres de ellos son anónimos y los restantes están atribuidos a veinticinco autores de nombre conocido: diecinueve judíos y seis árabes rigurosamente contemporáneos, de los que se apuntan algunos datos biográficos y se señala el día de su muerte. Este último dato no es baladí, ya que supone el principio vertebrador de la antología, tal como deja adivinar el antólogo en su «Nota» preliminar: «Estos escritos fueron encontrados en bolsillos y mochilas de muertos árabes y judíos de la llamada 'guerra de los seis días', en 1967»232. De ahí que la datación de esas muertes no se haga, como es habitual, mediante fechas, sino en relación con el desarrollo del conflicto bélico, por el ordinal correspondiente.

Pese a esta peculiaridad, para el conocedor de los apócrifos aubianos no resultaba del todo extraña esta obra, aparentemente gemela de la Antología traducida que Aub había publicado en Méjico en 1963 y en cuya edición española233 había aumentado considerablemente el número de poetas antologados. Y, sin embargo, una mirada más detenida aprecia diferencias fundamentales entre ambas obras, diferencias que, sin anular el parentesco, sí desmienten esa superficial apariencia gemelar. Y es que   —162→   la Antología traducida no es sino una magistral superchería carnavalesca; un festivo apunte, múltiple y caleidoscópico, de ese juego de más caras que son los apócrifos aubianos; juego que culmina en las personalidades desarrolladas y complejas del escritor Luis Álvarez Petreña y del pintor Jusep Torres Campalans.

En cambio, Imposible Sinaí va más allá que la Antología traducida: cierto es que se trata de un nuevo ejercicio lúdico de creación de «otros» y de obras de «otros»; cierto, también, que -como en aquélla- en la nómina de autores se mezclan nombres falsos con nombres reales disfrazados, por lo que, en definitiva, viene a ser también un juego carnavalesco; pero éste de ahora es un juego mucho más serio y agónico. Y no sólo porque, como apuntaba la contraportada, se cifre en sus páginas una «desgarradora tragedia» colectiva, sino también -y sobre todo- porque aquí, más que nunca, se adivina a Max Aub por debajo de todas y cada una de las máscaras tras las que se encubre; él es cada uno de esos judíos, pero también cada uno de esos árabes, y suya es también -sin dejar de serlo de los apócrifos- la voz que clama o gime, se exalta o ironiza en los textos antologados; una voz colectiva, cuya textura y resonancia emana del conjunto coral y no de las voces individuales, a veces disonantes y antagónicas. Y es que la construcción polifónica de Imposible Sinaí responde, en última instancia, al mismo impulso distanciador en el que el propio Aub fundaba su inclinación a escribir teatro: «siempre tuve -confesaba Aub- mayor facilidad para decir lo que tengo que decir a través de varias personas que no por mi boca, o mi ecuanimidad ante la vida me hizo pensar que el teatro era la mejor manera en la que podía exponer mis ideas»234.

Por eso, por lo que en conjunto tienen de Aub, es lo por lo que se encierra tanta verdad en estos escritores y en estos escritos apócrifos. Pero es que, además, para que el dibujo del mosaico resulte nítido y creíble, las teselas que lo componen están firmemente unidas entre sí mediante un aparente respeto al canon genérico, y aparecen enmarcadas por unos hechos reales que prestan verosimilitud a la ficción235; que convierten   —163→   el juego de supercherías en un comprometido testimonio de la verdad histórica, y dejan adivinar el deseo aubiano frente a la descarnada realidad.

La mezcla de realidad y ficción, de lo verdadero y lo falso, se produce ya desde el comienzo del libro. Se abre éste, como es habitual en las antologías, con una «Nota» preliminar que resulta del todo ortodoxa dentro de los cánones del género, ya que en ella explica el antólogo quiénes son los antologados y cuáles los criterios de selección que ha seguido. Aub cumple con el primer requisito al dar cuenta, incluso, del lazo que los une (que es, en cierto modo, generacional: el haber muerto en la guerra de los seis días); y también se somete al obligado trámite de expresar su reconocimiento a las ayudas recibidas, pues la nota continúa diciendo: «Las traducciones deben mucho a mis alumnos. Se lo agradezco». Para finalizar de forma tajante, pero ambigua: «No tomo parte. Sólo escojo para su publicación -con la ayuda de Alastair Reid- los que me parecieron más característicos».

Quizá convenga ahora recordar que Aub estuvo en Israel pocos meses antes del conflicto, ya que fue comisionado por la UNESCO para fundar un Instituto de Cultura Hispanoamericana en la Universidad Hebrea de Jerusalem. Durante su estancia, que se prolongó desde noviembre de 1966 a febrero de 1967 impartió dos cursos en dicha Universidad por lo que, de haber sido reales los textos antologados -y posterior su estancia en algunos meses-, sus alumnos hubieran podido ayudarle a traducirlos, puesto que de algunos de esos textos se señala luego expresamente que estaban escritos en hebreo clásico, ladino, hebreo incorrecto, o yiddihs; en árabe clásico o vulgar. Aunque esta ayuda no sea real, sí es completamente verosímil; como lo es la del apócrifo filólogo Alastair Reid a la hora de seleccionar los textos. Ninguna de ellas ocurrió, ya que no existieron tales traducciones ni hubo ninguna selección; pero podrían haber ocurrido de ser ésta una antología «real». Por otra   —164→   parte, esos meses vividos por Aub en Israel habrían dejado todavía frescos en su memoria los lugares y las gentes que se estremecieron bajo la repentina y brutal sacudida de esa guerra; y por ello, los retratos que preceden a los textos, aun siendo generalmente brevísimos -y a veces, precisamente por serlo-, consiguen dar una vívida impresión de veracidad o, al menos, de verosimilitud.

Lo que ya resulta mucho menos verosímil es la tajante aseveración aubiana de que «no toma parte». Todo antólogo toma parte, por el mero hecho de escoger. Y además, ningún lector medianamente conocedor de la obra de Aub tomaría esas palabras sin cierta cautela y más aún después de leer que ha seleccionado «los que [l]e parecieron más característicos». Más característicos ¿de qué?, se pregunta el lector. La tercera parte del libro, esto es, la antología propiamente dicha, desvelará la incógnita y se encargará de confirmar su sospecha de que la pretendida selección ya implicaba, en realidad, una toma de partido.

Tras la nota aparece otro apartado preliminar rotulado así: «Los hechos. Junio, 1967 (del 5 al 10)». Se trata de una introducción documental que, como reza su título, es rigurosamente fiel a los hechos. Está dividida en seis partes, correspondientes a cada uno de los seis días que duró la contienda y en ellas se narran las acciones bélicas más importantes, así como las reacciones de otros países, las alianzas explícitas o de facto, las inútiles conversaciones de paz en los organismos internacionales...; todo ello con un lenguaje directo y escueto, eminentemente periodístico. Y es que, de hecho, la mayoría de las frases están tomadas literalmente de los titulares de los periódicos o de los comunicados de las agencias internacionales de prensa. Tanto la estructura «de diario» como el mecanismo de reconstrucción histórica habían sido ya utilizados por Max Aub en Campo del moro, novela que estaba dividida en siete partes, correspondientes a los siete días que van del 7 al 13 de marzo de 1939, y en la que se entremezclaban los acontecimientos de la trama argumental con datos reales, referidos a militares, políticos y situaciones bélicas, que estaban tomados directamente de los medios de comunicación (el manifiesto casadista, que se reproduce en la segunda jornada, o la terrible secuencia del entierro destrozado por un obús en la última, a la que acompaña, como referencia real, la transcripción escueta de un cable de la International Press, fechado precisamente el día en que transcurre esa jornada: el 13   —165→   de mayo)236. Pero el procedimiento está llevado en Imposible Sinaí a sus últimas consecuencias, ya que los datos documentales no se incluyen, a modo de exordio, en un texto de ficción, sino que constituyen por sí mismos todo el apartado. Así, bajo el primer epígrafe, que reza «Primer día, lunes» se transcribe:

Aviones israelíes atraviesan al amanecer la frontera y aniquilan la aviación egipcia en sus bases. Incursiones semejantes se producen simultáneamente en Jordania, Siria e Irak, mientras logran atraer a aeródromos ya ocupados la aviación argelina, que los judíos desarman.

Los países árabes inician el ataque por el pasillo de Gaza, Jerusalem y el norte de Galilea. Aviones sirios e iraquíes bombardean Haifa, Tel Aviv, Netanya...


(p. 9).                


De todos modos, este aséptico lenguaje no implica siempre, ni necesariamente, objetividad por parte del antólogo (puesto que también aquí -pero ahora de verdad- es antólogo de escritos ajenos). La selección deja al descubierto una irónica intencionalidad crítica, aún más sarcástica hoy, tras el recorrido de la historia, que cuando Aub la hizo. Este tipo de frases, de fuerte carga crítica, suele colocarlas Aub al final de cada «noticiero diario». Así, el del primer día se cierra con estas noticias:

El general Dayán, ministro de defensa israelí, declara que Israel no abriga intenciones territoriales.

De Gaulle suspende el envío de material bélico a Israel.

La URSS comunica que no intervendrá, a menos que lo hagan los EE. UU.

Los Estados Unidos prometen ser neutrales de «pensamiento, palabra y obra»


(pp. 9-10).                


En otras ocasiones, Aub se hace presente de manera aún más ostensible; la transcripción de una noticia del segundo día hace que el antólogo deje escapar un comentario mudo, pero gráficamente explícito:

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Inglaterra suspende el envío de armamento a los países árabes mientras Alemania ofrece una partida de caretas antigás (!) a Israel


(p. 10).                


mientras que, con un irónico y amargo comentario, se desmiente la buena noticia del último día:

Con el cese de la lucha en el frente sirio, a las 6.30 de la tarde (hora del Medio Oriente), la guerra árabe-israelí ha terminado. Es un decir


(p. 13).                


Todo en este apartado se sitúa en el dominio de lo verdadero, puesto que responde a la realidad que llamamos objetiva; son datos auténticos y, como tales, verdades históricas que tiñen de verosimilitud -y, en cierto modo, de veracidad- toda la antología apócrifa que le sigue. Incluso los comentarios subjetivos del antólogo, ya sean implícitos o explícitos, resultan tan sinceros, que no sólo no anulan este fenómeno de connotación, sino que lo refuerzan, contribuyendo así a la alianza de lo verdadero con lo falso.

Porque todo lo que sigue es falso. Falsa la antología, que no es el resultado de un proceso de selección sino de creación. Falsos los nombres de los autores, que, o bien son inventados, o son la contrafactura de un nombre real237. Así, un tal Max Nordelstraum, escritor que «no había publicado nada aunque corría la voz de que era autor de no pocos editoriales de periódicos semioficiales» y que «en su mochila llevaba un centenar de páginas manuscritas de un libro titulado Lecciones» [p. 69] remite, sin lugar a dudas, al escritor sionista Max Nordau, a quien -a modo de guiño indicial- se cita con su verdadero nombre en el poema inmediatamente anterior. O Manoce Mohrrenwitz, a quien su apellido -el mismo de la madre de Aub-, su biografía -«vendedor ambulante, dicharachero, cuentista, nadie supo jamás de dónde surgió»- y su complexión física -«moreno y de pelo ensortijado» [p. 41]- delatan como heterónimo del propio Aub238. Por su parte, Isaac Kaplan tiene el mismo   —167→   apellido que el célebre Gran Rabino de Francia Jacob Kaplan; mientras que el de Ibn Al-Arrafat recuerda al del célebre líder de la OLP...

Falsos son, en fin, los textos antologados, que, en muchas ocasiones, ni siquiera se corresponden con la sensibilidad o el carácter que los esbozos biográficos permiten presumir. El caso más espectacular de esta inadecuación entre personalidad y obra lo ofrece Amin Ibn Ibrahim Al-Attar, y así lo hace notar el antólogo al trazar su biografía:

Representante de un fanatismo sin límites, creyente fervoroso en su fe y víctima propiciatoria de su cerril entusiasmo, no cree en las armas, no cree en la supremacía de unos aviones sobre otros. Sólo la fe en el solo Dios verdadero es capaz de otorgar el triunfo. En esa cerrazón máxima (no nacionalista) vemos volver a caer la humanidad, que la tolerancia parecía haber madurado [...] Todas las poesías de su diván se refieren a personajes que parecen serle extraños.


Y, en efecto, el texto que se le atribuye, significativa y tendenciosamente titulado «El tonto», resulta impresionante, pero no por su fanatismo integrista, como sería de esperar dada esa biografía, sino, muy al contrario, por su ingenuo apego a la tierra, a la familia y al hogar, en los que radica un primitivo concepto de patria:

Digan lo que quieran: viví en esta tierra. Llámenla como quieran -tuvo bastantes nombres-. No me importa. Aquí vivía. Aquí nací. Aquí conocí mujer. Aquí nacieron mis hijos. Aquí tenia un huerto. Aquí tenía mis cabras. Aquí tenía mi casa. Aquí tenía mi mujer. Un día llegaron unos señores (no me importa saber quiénes eran) y me dijeron que me fuera.

Luego traté con otros que me hablaron de justicia y de recobrar mi huerta.

Lo primero no sé lo que es. Lo segundo sí: me acuerdo muy bien de cómo era. Y ahora me dicen que sólo puedo volver a tenerla jugándome la vida. Me extraña:

Mi vida no vale nada.

Sí mi casa


(pp. 30-31).                


La tercera parte, esto es, la antología propiamente dicha comienza y termina con textos escritos por árabes: el primero, de Alejandría; el último, beduino. Ya he apuntado anteriormente que los árabes son absoluta minoría en el cómputo total de autores antologados (6 frente a 19   —168→   judíos); es más, si sumamos las tres composiciones anónimas, que también son judías (un «Canto askenazi del trabajo», un «Diálogo, traducido del ladino» y el texto escrito en idioma clásico y perfectamente caligrafiado que se identifica sólo como «Anónimo hebreo»), resulta que las composiciones provenientes del lado árabe no llegan ni a la cuarta parte. Y sin embargo, parece como si Aub desease compensar ese desequilibrio -comprensible teniendo en cuenta que él mismo era judío- reservando para dos de ellos los lugares de privilegio.

El primero, Ali Fakum Nazzar, marca la tónica de lo que va a depararnos la antología ya que, como sucede en la mayoría de los casos, el hombre importa poco si no es como combatiente muerto: «No pude saber nada de él. Nadie se acordaba o se alzaban de hombros» -confiesa el antólogo, tras dar sucintamente la fecha y el lugar de su nacimiento-; pero a continuación añade una reflexión personal de carácter generalizador: «Hay personas que pasan así por el mundo; injustamente, como es de razón». Resulta, por tanto, que lo realmente importante es el texto atribuido -en este caso, un breve poema paralelístico-, que es el que lo define:


Dice el hombre: dulce
y sabe lo que es.
Dice el hombre: sal
y sabe lo que es.
Dice el hombre: verga
y sabe lo que es.
Dice el hombre: Dios
y sabe lo que es.
Pero dice muerte
y nadie lo sabe.


Y está detrás y delante.


El conocimiento y el aprecio de lo propio y de lo cotidiano, ya sean sensaciones, instintos o creencias, es lo real para la mayoría de los autores de estos textos, tanto si son árabes como judíos, y queda magnificado por la idea de la muerte -esa incertidumbre y esa certeza- por cuya inminencia se sienten cercados. La muerte se erige en el principal tema recurrente de Imposible Sinaí; lo que resulta del todo verosímil, dadas las circunstancias. Pero sobre la temática habré de volver más adelante.

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Antes quiero señalar otro rasgo que puede considerarse también como un procedimiento equilibrador: el de recoger textos de israelíes no comprometidos con la causa sionista, bien porque se muestren pro árabes, como Salomon Chavsky, soldado de trasmisiones, «amigo de bromas y gran intérprete de canciones populares», que termina su poema exclamando:


Pobres árabes
árabes pobres.
¿Cuál es el adjetivo,
cuál es el sustantivo?
¿Quién es el responsable
de este desastre?


(pp. 39-40)                


O porque sean pacifistas, como tantos otros, entre ellos David Gilberson, quien, según los datos biográficos, «había nacido en un barco, frente a Haifa, hacia 21 años» -en 1946, por tanto; un año antes del episodio del Éxodo, barco en el que sí nació Sigmund Baginsky.

O porque sean abiertamente ateos, como Mohrrenwitz, el alter ego de Aub, que lo confiesa abiertamente («porque no creo en Dios [...] Yo soy ateo... »); o como Mordehai Hausmann, en cuya mochila llevaba la copia de una canción anónima palestina que termina diciendo: «No creo en Alá / no creo en nada. / Pero el desierto / es nuestro. / No soy árabe ni judío / soy palestino»; o como el doctor Chaim Becker, psicoanalista freudiano, autor de una regocijante y sacrílega contrafactura esquemática de los libros bíblicos Génesis y Éxodo, digna de figurar en el aubiano Correo de Euclides:

LA VERDAD DE LOS HECHOS

1) Y Adán mató a Dios cuando éste intentó expulsarle del Paraíso (del papel de Eva en este acontecimiento se sabe poco).

2) Y lo enterró al pie del árbol del Bien y del Mal. Y entonces la tierra se secó.

3) Buscando un nombre para el nuevo paisaje le llamó Desierto.

4) Y buscaron una salida y se encontraron de pronto en las orillas del Mar Rojo.

5) Y no pudieron atravesarlo y volvieron al Desierto y decidieron trabajarlo.

6) Y entonces nació Bercheva, que era una camella, hija de la arena y de las montañas (el color y las jorobas lo prueban).

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7) Y empezaron a fecundar las arenas con el agua del Jordán, pero bajó tanto el nivel que nació el Mar Muerto y la sal asoló lo que Adán y Eva habían hecho.

8) Mas, a pesar de ello, para los demás, siguió siendo el Paraíso. No recordaron que todos los males provienen de Dios el Omnipotente, que quiere decir el Bueno.

9) A Moisés no le pareció lo mismo y se llevó su gente a Egipto. Y Dios se quedó solo.

10) Moisés, padre del Éxodo, impuso la religión de Atón a los judíos.

11) Y los circuncidó a todos, uno después de otro.

12) Los judíos lo mataron porque no estuvieron acordes en perder parte de su prepucio.

13) Solamente los levitas supieron defender su nuevo pene y así vinieron a ser los verdaderos hijos de Jave, guardadores templarios de su fe. Pero eso sucedió mucho después


(p. 30).                


Sin embargo, el elemento que resulta determinante, no sólo como factor de equilibrio, sino de cohesión de la antología, es la comunidad temática. Tres son los temas que, a menudo combinados en un solo texto, ejercen absoluta hegemonía:

a) LA MUERTE.- La certidumbre de la muerte es el sentimiento que con más frecuencia se trasluce en los textos antologados. «Te saludo, última noche. / Mañana serás verdad, / a la luz del día» (p. 25), dice Agnev Shalom, haciendo honor a su apellido al saludar los últimos momentos de su vida. Mientras que Sigmund Baginsky suplica: «Jehová, si existes, haz que la tierra ruede más aprisa para que yo pueda todavía ver salir el sol del nuevo día. / ¡Sólo eso: morir de día, no ahogarme como ahora, de noche!» (p. 43). Noche y muerte vuelven a unirse en el romance del sefardí Salomom Succa, con claras huellas del romancero judeoespañol: «Una noche como ésta -no es de dormir / me decían de niño- en Alcazalquivir. / Una noche como ésta -es de morir» (p. 53); y también en el texto escrito por Eliahn Kimron:


Cae la noche, se infiltra desde Jordania, tan limpia como todo el
cielo.
El sol incendia el lado opuesto.
Brilla el lucero.
Mañana por la mañana, sucederá
lo mismo, del otro lado.
Será otro día. No para mí.
Para mí, será la noche verdadera...


(p. 59).                


  —171→  

El miedo a morir está sugerido en éstos con melancólica belleza. Pero en una sola ocasión el tema aparece tratado de forma humorística; un humor negro, claro está, que roza lo absurdo y que recuerda el de los Crímenes ejemplares. En el poema de Abraham Yeshundhim, el lamento por la certeza de la muerte no trasciende angustia sino hastío, como si morir en una guerra absurda fuese una rutina considerada de forma despectiva por un dilettante:


¡Qué pesadez morir sin
saber quién va a ganar el
partido del domingo próximo!
¡Qué lata eso de morirse
cuando hay que hacer tantos filmes!
¡Qué absurdo morirse antes
de saber quién descubrirá
que el mundo se puede mover
a nuestro antojo, con una sencilla
palanca!... ¡Avante!, ¡atrás!,
día o noche, a gusto del manejador.
¡Como si fuese un tranvía...!
¡Qué abuso morirse cuando
tiene uno el troley en muy buen estado!
Pero ¿qué le vamos a hacer?
Uno no puede escoger
quien haya sido su padre
ni siquiera su madre.
Y menos mal que siempre se es
el cadáver de alguien.
¡Y yo que quería ser buzo...!


(pp. 47-48)                


b) LA TIERRA.- En los textos de los combatientes no aparecen mencionados ni las ideologías políticas, ni apenas los sentimientos de patria, Estado, raza o religión, pero sí el de la tierra; la tierra sentida como hogar, como entorno vital y familiar, como lo único por lo que merece la pena luchar o adonde se añora volver. No está vista, por tanto, en el sentido de posesión material sino en el de pertenencia mutua. Ya vimos, en la composición árabe titulada «El tonto», cómo el «yo» poético considera que su casa tiene más valor que su propia vida. También el sabra Gustav Fleischman, nacido en un kibbutz, se expresa de forma análoga:


... Me tiene sin cuidado
—172→
quien tenga razón o no.
Para mí tanto monta Ben Gurion
o Eshkol.
Esta es mi casa
y la defiendo como puedo;
y si para eso
hay que atacar, ataco.
Porque he nacido aquí
y de mi campo no me echa nadie
a menos que me arranquen de raíz.


(pp. 57-58)                


c) LA INDISTINCIÓN ENTRE ÁRABES Y JUDÍOS.- Paradójicamente, los dos bandos contendientes, tan nítidamente separados en cuanto a los políticos y los generales, tienen unas fronteras mucho más borrosas cuando se trata de los que se enfrentan realmente en el campo de batalla. En sus textos sólo se percibe la distinción en que unos son ricos y otros pobres, unos más cultos y más limpios que los otros, unos reciben apoyo de los americanos y otros de los rusos... Accidentes al fin. En lo sustancial son iguales. De ahí que Manoce Mohrrenwitz se pregunte: «¿Por qué tengo que seguir adelante y matar árabes que parecen judíos o judíos que creen en Alá?». De ahí también la pertinencia del «Diálogo traducido del ladino»:

-Podemos discutir si soy judío o israelí, y si tú eres árabe o mahometano. Árabe y judío, israelí y mahometano.

-Tanto da lo uno o lo otro.

-¿Esta guerra es de judíos contra israelíes y de árabes contra mahometanos?

-¿Qué estamos haciendo aquí?

-Subamos a esta gruta. Ayúdame. Sosténeme. Hablemos: tú y yo somos de aquí, ¿qué vinieron a hacer esos rusos, esos alemanes, esos polacos, esos norteamericanos?

-Tú eres judío, yo mahometano. Ni tú ni yo nos hacíamos daño. Los dos semitas, los dos oscuros, cuatro ojos negros, pelo crespo.

-Ahora somos dos muertos: morenos, de ojos en blanco, de pelo crespo.

Si nos cambiaran de uniforme...


(p. 45).                


Aub no comenta los textos que antologa, no explicita su denuncia ni deja entrever su deseo; pero el lector tiene suficientes datos para hacerlo   —173→   por sí mismo: si los combatientes árabes y judíos tienen idénticos sentimientos ante la muerte, si no entienden o no les importan las sonoras palabras tras las que se esconden ambiciones políticas o intereses económicos ajenos, y si su única patria es su casa, su tierra y su familia...; si en el fondo son iguales, ¿por qué son arrastrados a morir y a matar en una guerra?

Permítanme ahora volver a unas palabras de Max Aub que ya he citado al comienzo de mi intervención. Son aquéllas en las que nuestro autor afirmaba: «Siempre tuve mayor facilidad para decir lo que tengo que decir a través de varias personas, que no por mi boca, o mi ecuanimidad ante la vida me hizo pensar que el teatro era la mejor manera en la que podía exponer mis ideas». Las repito porque creo que, a la vista de Imposible Sinaí, estas palabras adquieren una peculiar significación, también plural, que ayuda a comprender la motivación, la intención y el sentido de la obra.

En primer lugar, la relación que de esta forma se establece entre los poetas apócrifos y las personas (que no «personajes») teatrales aubianas viene a coincidir con la teoría pessoana del heterónimo, en la que tal relación está expresamente formulada. En efecto, Fernando Pessoa, creador de múltiples apócrifos -algunos tan «reales» como Alberto Caeiro, Ricardo Reis o Álvaro de Campos, amén de tantos otros de personalidad más borrosa- y teorizador del fenómeno, afirma que frente a la obra seudónima, que «es del autor en persona, salvo en el nombre que firma; la heterónima es del autor fuera de su persona, es de una individualidad completa fabricada por el cómo lo serían las palabras de cualquier personaje de uno de sus dramas». Y todavía va más allá, cuando insiste: «Estas individualidades deben ser consideradas como distintas de su autor. Forma cada una de ellas una especie de drama; y todas ellas juntas forman otro drama»239. Eso es precisamente lo que sucede en Imposible Sinaí, ya que cada uno de los apartados resulta ser algo más que la conjunción literaria de un nombre propio, una sucinta biografía y un texto más o menos poético; la biografía da corporeidad al nombre y el texto dota de sensibilidad a esa entidad corpórea previamente formada, de modo que el conjunto resultante es un drama individual; pero es que   —174→   además -y tal como quería Pessoa- se produce una interacción entre ellos, interacción que los hace antagonistas en el drama de esos seis días y los hermana en los sentimientos y en la muerte.

En segundo lugar había mencionado Max Aub su «ecuanimidad ante la vida» como justificación de su tendencia a expresarse a través de una pluralidad de voces. Da la impresión de que Aub, a estas alturas de la vida, visto lo visto y pasado lo pasado -y no olvidemos que lo visto y lo pasado fueron guerras, campos de concentración y exilio, además de hambre, injusticia y sufrimiento- conviniese con Antonio Machado en que la objetividad sólo puede lograrse mediante la combinación de diversas subjetividades. De modo que, con esta antología, Aub viene a suscribir, en la práctica literaria, las palabras con que don Antonio daba cuenta epistolar a Giménez Caballero de la creación del apócrifo Pedro de Zúñiga: «esa nueva objetividad a que hoy se endereza el arte [...] no puede consistir en la lírica -ahora lo veo muy claro-, sino en la creación de nuevos poetas -no nuevas poesías-, que canten por sí mismos»240.

En fin, Aub confiesa abiertamente que se sirve del teatro para «exponer [sus] ideas»; que utiliza a otras personas para decir, a través de ellas «lo que tiene que decir». Pues bien, como hemos visto, esos falsos muertos de la guerra de los seis días son la voz viva y palpitante de Aub; a través de ellos, de sus dramas individuales y de la interacción que los engloba en el drama colectivo, Max Aub nos grita su verdad. Esa verdad que, como en su narrativa y su teatro, es compromiso y denuncia, sí; pero en la que también apunta el deseo de que ese Sinaí en paz -o ese Sarajevo- deje de ser imposible algún día, cuando el mundo entero lance un No rotundo a los sectarismos y dejemos, todos nosotros, de Morir por cerrar los ojos.



  —175→  

ArribaAbajoI falsi scoop de El correo de Euclides

Salvatore Casillo



La produzione di notizie difatti mai accaduti

Marshall McLuhan, in uno dei suoi lavori più famosi, sottolinea che il primo giornale americano, pubblicato a Boston, il 25 settembre del 1690, da Benjamin Harris, recava un'indicazione estremamente preziosa per chi, ai nostri giorni, voglia comprendere le vicende ed i percorsi di questo mezzo di comunicazione. Il «periodico», si leggeva nella sua prima pagina, sarebbe stato «distribuito una volta al mese (o più spesso se vi sarà abbondanza di avvenimenti)». Per lo studioso canadese «Niente avrebbe potuto esprimere più chiaramente l'idea che la notizia era qualcosa al di fuori ed al di là del giornale. In queste condizioni di consapevolezza rudimentale una delle maggiori funzioni del giornale consisteva nel correggere le voci ed i resoconti orali, allo stesso modo in cui un dizionario fornisce l'ortografia e le definizioni «corrette» di parole già esistenti. Ma ben presto i giornali incominciarono a capire che non dovevano soltanto riferire le notizie ma raccoglierle, e addirittura, fabbricarle. Tutto ciò che entrava nel giornale era notizia. Il resto non lo era»241. In conseguenza di ciò, il «fare notizia sul giornale» segnala, ambiguamente, sia l'essere notizia, che il processo che porta alla sua produzione, «un mondo d'azioni e insieme di finzioni» e non appena quanti si sono trovati a disporre, come proprietari, come influenti orientatorio, più semplicemente, come operatori di questo medium, si sono accorti che «la presentazione delle notizie non era una ripetizione e un resoconto degli avvenimenti ma una loro causa diretta, incominciarono ad accadere molte cose»242. Non solo, infatti, come sottolinea McLuhan, le «inserzioni e le campagne pubblicitarie» (intese nelle più ampie accezioni) hanno fatto irruzione in prima pagina come articoli   —176→   sensazionali e non solo le esigenze, i bisogni, le mire e gli obiettivi di chi «fa» il giornale hanno trovato modo di essere proposti come patrimoni e desideri di coloro che leggono il giornale, ma anche i sogni e gli incubi, le fantasticherie ed i timori, del cronista e/o del lettore -modificandosi il senso della connessione tra l'evento e la notizia di esso- hanno avuto la possibilità di tradursi in titolazioni straordinarie ed in notizie sconvolgenti.

Con tutto il rispetto per quanti, «facendo un giornale», hanno ritenuto o ritengono -sinceramente- di rispondere positivamente con il loro prodotto ad un dovere di informazione da essi assunto nei confronti della pubblica opinione, e senza dubbio molto agevole, soprattutto dall'inizio di questo secolo, leggere gran parte della storia del «prodotto giornale» come la storia della enorme varietà di modulazioni e di miscelazioni che possono essere ottenute in una redazione muovendo dai tre ordini di ingredienti appena accennati.

Presso la totalità degli esemplari di questo particolare «prodotto», in alcuni momenti risulterà, pertanto, che ha avuto un ruolo determinante e primario l'intento della promozione di taluni interessi economici, in altri momenti quello dell'affermazione di questo o quell'insieme di valori connessi all'esigenza di far procedere o rafforzare una particolare visione del mondo. In altre occasioni, invece, emergerà che uno spazio ampio é stato occupato dal fantastico, evidentemente, adattato e tradotto in cronaca di un avvenimento.

Con ciò, non si vuole necessariamente affermare che la storia del «prodotto giornale» sia una storia di inganni; essa è la storia di varie modalità di effettuazione della «produzione di notizie» che hanno avuto e che possono intrattenere differenti relazioni tanto con fatti effettivamente avvenuti, tanto con eventi ipotizzati o non verificati dal produttore della notizia giornalistica, tanto con accadimenti completamente fantasticati.

Rinviando ad altra occasione le complesse riflessioni nelle quali non ci si può non addentrare se si sofferma l'attenzione sul rapporto tra le notizie fabbricate dal giornale ed i fatti realmente accaduti, può essere utile, in questa sede, prendere rapidamente in considerazione alcuni degli elementi che possono più nettamente caratterizzare le situazioni nelle quali eventi mai avvenuti divengono notizie.

In particolare, vale la pena inquadrare la fabbricazione di notizie costituite da questo genere di materia prima alla luce di due coppie di elementi:   —177→   da un lato, la volontarietà o la non volontarietà della operazione di deformazione della realtà che la notizia prodotta comporta per coloro che l'acquisiscono e, dall'altro lato, la presenza o meno di un vantaggi o connesso a tale deformazione della realtà per chi effettua la produzione in questione.

imagen

Dall'incrocio delle due diadi scaturiscono quattro diversi tipi di uno degli insiemi delle notizie fabbricate dai giornali, concernenti fatti non accaduti:

a) notizie nelle quali la deformazione della realtà non è connessa né all'intento di dispensare dati o indicazioni non veritiere né a quello di acquisire o fornire deliberatamente ad altri, attraverso una comunicazione fuorviante, un qualche vantaggio. È il caso degli infortuni giornalistici o di quelle che gli addetti ai lavori, non troppo elegantemente, chiamano «bufale»;

b) notizie nelle quali l'involontaria deformazione della realtà si traduce in una fortuita possibilità di sfruttare la situazione da parte tanto di chi fabbrica la notizia che di altri. Si tratta, quindi, di «errori vantaggiosi», di favorevoli ed occasionali «cortocircuiti» che, sebbene rari, non sono, tuttavia, impossibili, mentre certamente più frequenti -ma in questo contesto non è opportuno soffermare su di esse l'attenzione- so no alcune situazioni nelle quali, anche se il meccanismo che opera è dello stesso genere, invece di un involontario vantaggio per qualcuno, l'esito delle notizie e costituito da penalizzazioni e da danni più o meno generalizzati, come può accadere, ad esempio, in occasione dello scatenarsi   —178→   di alcuni tipi di panico243 in conseguenza della diffusione di alcune notizie, anche se non solo ad opera dei giornali;

c) notizie prodotte con il preciso scopo di porre fuori strada coloro che in base ad esse definiscono i propri comportamenti e le proprie strategie e favorire, così, altri soggetti più o meno collegati al giornale che le ha fabbricate. È questo il meccanismo della produzione del falso finalizzato all'inganno244, un genere di falso che, il più delle volte, poi, costituisce una delle possibili modalità con le quali nel giornale prendono consistenza sia la promozione/affermazione di alcuni interessi economici che quella connessa a obiettivi di altra natura;

d) notizie prodotte senza alcuna volontà di trarre da esse vantaggi di alcun genere ma, proprio per questo, fabbricate sotto il segno di una sfida connessa con lo sforzo di coniugare il piacere del gioco, anche in qualche modo competitivo, con l'impegno a rispettare le sue regole di gioco. Una «azione libera», per dirla con Huizinga, «azione a cui in sé non è congiunto alcun interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti»245, ma spesso anche «azione liberatoria», nella misura in cui direttamente o indirettamente, consapevolmente o meno, bilancia ed addirittura può rendere evidenti nella loro natura -e quindi, almeno in parte, prive di conseguenze- molte delle operazioni di falsificazione e di inganno condotte mediante i giornali.




I falsi scoop

«El Correo de Euclides» - «Periodico Conservador» - fondato, fabbricato, nelle notizie e nella sua materialità di pubblicazione a stampa, nonché diffuso, da Max Aub, non è un vero giornale, ma non è neppure un falso periodico (visto che il suo creatore lo inviò annualmente, sia pure con qualche interruzione, ai suoi amici, dal 1959 al 1968, in guisa di affettuoso ed intelligente augurio di buon anno) e soprattutto -come si tenterà in queste note di evidenziare- non è una pubblicazione di carattere   —179→   conservatore, in relazione alla visione del mondo che la pervade, tuttavia costituisce una manifestazione dell'esigenza di conservare e di fendere capacità critica ed ironia, rispetto ad un mondo che sembra volerle relegare in territori secondari dai confini sempre più angusti.

Del suo periodico Aub fabbricò nove numeri246 (non si sa bene in quanti esemplari) e l'aspetto di ognuno, sia per la impostazione grafica del foglio, sia per il linguaggio gridato dei titoli in esso contenuti, fa si che si presenti no tutti come una sorta di «edición extraordinaria» -stampata per un «acontecimiento extraordinario»- che annuncia la presenza nell'interno del giornale (ma «El Correo de Euclides» è costituito soltanto da un foglio, la cui seconda facciata è riservata quasi sempre esclusivamente agli auguri di buon anno di Aub247 ed una scherzosa frase di accompagnamento del giornale248) di una molteplicità di conseguenze dell'avvenimento eccezionale che viene annunciato a tutta pagina ed un ampio arco di commenti e di punti di vista su di esso espressi da alcuni attori della scena mondiale il cui ruolo, anche in relazione alla logica costruita dai mass media, non consente loro di essere esentati dal manifestare un giudizio.

Sono, dunque, nove le notizie straordinarie prodotte da «El Correo», di esse alcune suonano come annunci sconvolgenti, altre, a tutta prima, evidenziano una inferiore capacità di suscitare emozioni, alcune sono dotate di una «confezione» più verosimile, altre appaiono poco vicine all'universo del quotidiano dell'uomo della strada (all'anonimo e mitico interlocutore privilegiato di ogni giornale), alcune catturano per   —180→   le appassionanti implicazioni che sembrano avere per il destino di ognuno, altre (anche se, forse, soltanto in un caso), dopo le prime battute, rapidamente perdono interesse. Tutte, comunque, hanno in comune un elemento fondamentale: sono «notizie esclusive» di «El Correo de Euclides», ma avrebbero potuto (ed ancor più, oggi, potrebbero) essere esemplari perfetti dell'esercizio degli scoop sensazionali che i tanti giornali che si contendono l'universo dei lettori offrono a questi con cadenza giornaliera.

Il primo di questi scoop è, come si detto, del capodanno del 1959. L'annuncio sconvolgente, trasmesso da un inviato speciale nella Via Lattea, è che «LA TERRA È UN SATELLITE ARTIFICIALE»!

Dopo trentasei mesi, il secondo numero di «El Correo», evidenziando una continuità ideale con la «scoperta» precedentemente segnalata, propone un nuovo avvenimento di portata... universale. A causa, infatti, di «una leggera ed imprevista deviazione di (appena) 400 milioni di chilometri che lo ha portato verso un satellite ancora in ombra», un astronauta cinese, in 78 giorni ha effettuato un percorso a ritroso nel tempo ed ha avuto modo di inaugurare una via che comporta la possibilità «Dalla prossima settimana» del «PARADISO APERTO A TUTTI».

Il 1963, che e l'anno nel quale, con la data del 31 dicembre vengono stampati il numero tre ed il numero tre bis (come supplemento dell'ultim'ora) e la grande notizia che merita tanto onore -pur collegandosi in qualche modo alle vicende connesse alla conquista dello spazio- svela un nuovo arcano: in relazione al tempo (si badi bene) «vivíamos al contrario», infatti, spara il primo titolo principale «IL FUTURO È IL PASSATO. Il nostro passato è oggi», per cui «tra 1.600 billioni di secoli evolveremo sino alla cellula originale». La conseguenza di questa scoperta che, contemporaneamente, assume anche il ruolo di una sua conferma, e merita, con ciò, un supplemento di «El Correo» è costituita dal fatto che (limitatamente al tempo ed al modo con cui ci vediamo allo specchio) «La sinistra è la destra è la destra la sinistra», ma, precisa il giornale, il problema è in via di soluzione dal momento che «Nuovi specchi corretti saranno posti in vendita sin dal mese prossimo».

Ancora il tempo è un elemento centrale nel numero quattro, relativo al 1964, del «Periódico Conservador» di Aub, benché la notizia che colpisce in prima battuta sia che «NON SIAMO FIGLI DEI NOSTRI PADRI». Spiegandoci che attualmente «accadono troppe cose   —181→   per permettercelo», la notizia si completa con l'affermazione, dotata della stessa evidenza grafica data a quella relativa alla nostra condizione di figli di genitori ignoti, che «PRIMA C'ERA TEMPO, ORA NO». Il tono scandalistico della titolazione di prima presentazione (evidenziato anche dalla scelta di usare per essa le lettere rosse) scompare nel momento in cui si scorrono gli altri titoli della pagina. Il tempo che manca non e quello che si riferisce alla possibilità di aver un rapporto sessuale da cui può essere generato un figlio, ma al fatto che se, come l'energia, «il tempo è discontinuo esistono momenti in cui non c'e tempo» con tutto ciò che ne consegue anche sul terreno del rapporto tra generati e generatori.

Per il numero del 1965 la notizia strabiliante è che «OGNI GIORNO SIAMO MENO». «Tutti i demografi e le statistiche mentono». Una lunga dimostrazione a base di numeri che crescono a dismisura andando a ritroso nel tempo sulla base di un procedimento storicomatematico infernale: per chi è nato (come Aub) nel 1903 si evidenzia, infatti, sul foglio, che i suoi genitori, nel 1880, erano due, i loro genitori, nel 1850, quattro, i suoi bisnonni, nel 1825, otto e così via fino all'anno uno della vita sulla Terra allorquando, con meticolosa precisione, si afferma nella seconda pagina del giornale, pervaso di calcoli in entrambe le facciate, gli abitanti furono 75.554.663.592.220.883.419.136.

Ispirato da quella che è passata alla storia come la Guerra dei Sei giorni, durata dal 5 al 10 giugno del 1967 e che consenti al governo di Israele di «annettere» Gerusalemme, «El Correo de Euclides» esce, con la data del 15 luglio, in edizione straordinaria annunciando «LA SOLUZIONE DEL CONFLITTO ARABO ISRAELIANO». Una soluzione, si evince dal pirotecnico susseguirsi di nomi di governanti, di popoli del Mediterraneo e di località della Spagna, che si sostanzia in un ritorno dei discendenti dei moriscos e dei marranos nella penisola iberica ed in una riassegnazione e riorganizzazione degli assetti etnico-politici dei suoi territori.

I due ultimi numeri del giornale, infine, pur portando all'attenzione del lettore due questioni diverse, un «terribile equivoco», nel 1967, ed una «informazione sbagliata», nel 1968, sono carichi, per quel che riguarda le conseguenze che comportano, di un identico sentimento di sgomento. Nel primo caso la rivelazione che ci viene da «El Correo de Euclides» e che «GLI UOMINI NON ERANO DESTINATI ALLA   —182→   TERRA» e che, quindi, a causa di un errore avvenuto in una non meglio precisata centrale di distribuzione furono deposti su questo pianeta. Da ciò l'interrogativo drammatico: «Che cosa ci stiamo facendo qui?».

Nel secondo caso lo scoop del giornale riguarda il fatto che finalmente «Sappiamo perché fummo abbandonati». La ragione, stando alle dichiarazioni di un esponente della Commissione relativa alle Attività Antiamericane, dotato di un nome che non consente equivoci circa la sua identità -'inconfondibilissimo (!) senatore Smith-, è che «DIO CREÒ LA TERRA A CAUSA DI UNA INFORMAZIONE SBAGLIATA DELLA C.I.A.».




Oltre il gioco del falso giornale

I grandi titoli delle strabilianti notizie gridate della prima (e unica) pagina dei vari numeri del giornale di Aub sono circondati, dunque, specificati, ed impreziositi da una folla e da un coro di altri titoli, più piccoli in quanto al corpo delle lettere con cui sono scritti, ma non per questo meno sconvolgenti, concernenti implicazioni e commenti degli eventi annunciati i quali, per il modo in cui sono formulati, accostati ed intrecciati gli uni con gli altri, lasciano intendere che nelle inesistenti pagine interne siano contenuti densi e particolareggiati articoli capaci di fornire il lettore di nuovi e decisivi strumenti di conoscenza della realtà che lo circonda.

«La pura e semplice raccolta di notizie [che appaiono sulla prima pagina di un giornale] di tutto il mondo ha creato un nuovo atteggiamento mentale che poco ha a che vedere con l'opinione politica locale e nazionale. Di conseguenza perfino la frequente assurdità sensazionalistica e la non attendibilità delle notizie non possono annullare l'effetto totale, che è indurre un senso profondo di solidarietà umana»249. Sulla scorta di questo particolare effetto, dunque, se «agli occhi di un lettore attento la prima pagina di un giornale è un caos superficiale che può portare la mente a partecipare ad armonie cosmiche di un ordine molto alto»250, quest'ultimo può benissimo essere costruito anche, da un lato,   —183→   con il massiccio ricorso a titoli e notizie che altro non sono se non «bufale», errori oppure falsi finalizzati all'inganno, dall'altro lato -così come ha fatto Aub con «El Correo de Euclides»- con titoli di notizie che si pongono, innanzitutto, come espressioni di puro gioco.

Alcuni tipi di gioco richiedono, più di altri, livelli elevati di perfezione organizzativa, allo stesso modo, anche alcuni giocatori sono, più di altri, stimolati dal piacere di disporre o di attivare strumenti necessari al gioco di ricercato grado di raffinatezza e sofisticazione, per cui se, per qualcuno, il gioco inizia solo dopo l'ultimazione di insopprimibili ed opprimenti adempimenti organizzativi, per qualche altro, procedere a tali adempimenti è già gioco.

Il «gioco del falso giornale», per poter essere fatto e ripetuto nel tempo con successo, rientra, senza dubbio, tra i giochi che richiedono (in tutti i sensi) notevole impegno organizzativo e, da parte sua, Max Aub, benché dia vita a «El Correo de Euclides» per giocare con persone ed intelligenze a lui care, costituisce la chiara testimonianza del fatto che l'opera di costruzione dello strumento perfetto con cui giocare che egli realizza ogni anno è già per lui una notevole parte del gioco.

Le condizioni necessarie per dar vita al «gioco del falso giornale» in forma non estemporanea o casuale ed il modo con cui Aub -per tutto il decennio in cui dà continuità al suo periodico conservatore- interpreta «il giocare» costituiscono, quindi, due elementi decisivi che spiegano l'assenza di cadute della godibilità di «El Correo de Euclides» e la sua straordinaria capacità di destare sorpresa e curiosità in relazione al susseguir si dei titoli che indicano le conseguenze mirabolanti ed i commenti sconcertanti che discendono dall'avvenimento eccezionale a cui la prima pagina è dedicata.

Le vicende della politica internazionale ed i suoi protagonisti -da Mao all'O.N.U.- sono accostati senza grandi stridori a sconvolgenti problemi posti da fantascientifiche e casuali conquiste di astronauti cinesi. Il Vaticano e l'URSS non perdono l'occasione per pronunciarsi, mentre le teorie di Zenone fanno il paio con le dichiarazioni di anonimi «saggi gabonesi» e del «sadico sabbatico». Annunci di imminenti immissioni sul mercato di specchi che invertono la destra con la sinistra si incrociano con le previsioni di cali di produzione che attendono il settore dell'auto in ragione della scoperta della possibilità di andare in Paradiso da vivi. L'illegalità teorica di tutti i governi e l'allarme in borsa si manifestano alla luce di stringenti ipotesi teoriche che spiegano il perché non   —184→   siamo figli dei nostri padri, tant'è che qualcuno può, senza problemi, vendere come schiava la propria madre (morta o viva che sia).

Nei nove numeri di «El Correo de Euclides» ribolle una enorme quantità di titoli/notizie, un campionario smisurato di casi, di vicende, di attori, di questioni, di patologie, di commistioni tra varie logiche e tra il logico e l'illogico, un campionario, insomma, che altro non è se non una fetta densissima dell'universo di cui è costituita la nostra quotidianità.

Se il modo con il quale, in generale, la pagina del giornale si pone oramai da tempo di fronte agli occhi ed al pensiero del suo fruitore come veicolo attraverso cui ha luogo una sorta di omogeneizzazione che può anche rendere compatibile l'incompatibile, vero il falso, fatto un'ipotesi improbabile, le nove pagine di «El Correo de Euclides» rappresentano senza dubbio la soglia, il momento limite che non deve essere superato senza correre il rischio di far fallire il tentativo di rendere credibile l'incredibile e di travestire la menzogna da verità. Aub sfonda in più occasioni con i suoi scoop la barriera del plausibile e si lancia, attraverso le edizioni straordinarie del suo giornale, nella produzione di falsi assurdi.

Il raffinato produttore di credibilissime false confessioni di falsi omicidi (Delitti esemplari), l'accurato estensore di una magistrale biografia di un inesistente testimone del più grande movimento artistico del secolo (Jusep Torres Campalans), l'ideatore di apocrifi letterari che alcuni degli autori falsificati avrebbero volentieri riconosciuto e firmato come propri (Antología traducida), Max Aub «giocando alla fabbricazione di un falso giornale» -pur dimostrando chiaramente di possedere tutti i segreti necessari per realizzare dei falsi perfetti- calca la mano, eccede, passa dalla possibilità di manipolare con successo l'improbabile allo smercio smaccato dell'impossibile.

Dopo qualche attimo di perplessità qualsiasi lettore di «El Correo de Euclides» -anche colui che non è mai appartenuto alla cerchia degli amici di Aub ma che ha la possibilità di leggerne i titoli, magari a qualche decina di anni di distanza dalla stampa di quei nove numeri -non può che accorgersi, infatti, non senza compiacimento per la propria abilità, di avere a che fare con un «falso giornale».

Già, se non fosse per qualche eccessiva esagerazione, per qualche particolare di sconcertante originalità, le edizioni straordinarie imitate da «El Correo de Euclides» sarebbero dei falsi perfetti di un qualsiasi   —185→   quotidiano che annuncia, gridando, il suo grande o piccolo scoop. Ma il «gioco del falso giornale» di Aub è incentrato sulla possibilità di fare un falso giornale perfetto oppure su quella di realizzare un falso giornale che possa essere identificato come tale e, quindi, nella riuscita opera di smascheramento di un falso produrre compiacimento in chi non si è lasciato trarre in inganno?

Le doti di «creativo falsario» di Aub -lo si è appena segnalato- sono così eccelse che non è possibile avere dubbi: se lo avesse voluto, il suo periodico sarebbe stato un giornale pieno di falsi non smascherabili. Ha scelto, invece, di far scoprire ai suoi lettori la falsità dei suoi scoop.

Non risulta che egli abbia esplicitamente affermato di avere effettuato questo tipo di scelta né, quindi, che abbia fornito indicazioni in merito alle ragioni che l'hanno sostenuta. Tuttavia, per le peculiarità della sua vicenda umana, intellettuale, politica può non essere troppo azzardato collegare la produzione di questo falso non troppo difficile da scoprire, con alcuni elementi presenti e particolarmente attivi nel grande calderone della vicenda che si dipanava negli anni nei quali ha dato vita a «El Correo de Euclides».

Una vicenda nella quale la fiducia nella imparzialità, nella superiore razionalità della scienza e nell'efficacia delle sue acquisizioni ha prodotto attese enormi in relazione alla possibilità di aggredire antichi e nuovi problemi di un'umanità che ha dichiarato di volere bandire la guerra, debellare la fame ed il sottosviluppo, il razzismo ed il pregiudizio ed invece è sempre più alle prese con nuovi gravi conflitti di ogni natura. La scienza, per un verso, è sempre più fantascienza (ed i suoi addetti ai lavori non esitano a barare e falsificare pur di acquisire potere e risorse251), per un altro verso si è tradotta in illusione tecnocratica252 e prepara l'avvento del «tecnopolio», di una «condizione culturale e mentale -cioè- di deificazione della tecnologia»253. Una vicenda nella quale la politica e la società si sono fatte spettacolo e, per dirla con Debord, «lo spettacolo non consiste di un insieme di immagini, ma di un   —186→   rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini»254 mentre il mondo è un mondo oramai ribaltato, nel quale «il vero è un momento del falso»255.

Una vicenda nella quale «è la parola che ordina, ed organizza, che induce le persone a fare, a comperare, ad accettare»256, ed il linguaggio -nel quale il concetto si abbrevia in immagini fisse, si generano di continuo formule autovalidantisi di carattere ipnotico, le contraddizioni della realtà si annullano senza lasciare traccia e le persone e le cose si identificano con le loro funzioni- il linguaggio «non dimostra e non spiega bensì comunica decisioni, dettati, comandi»257, unisce sfere di vita un tempo antagonistiche trasformando le falsità in verità258.

Se, in questo scenario, nel paese che viene celebrato per le sue libertà e per le qualità della sua stampa, un quotidiano come il «New York Times» nel 1960 (l'anno dopo l'uscita del primo numero di «El Correo de Euclides») poteva sparare titoli ed annunci come «I LAVORATORI DESIDERANO ARMONIA TRA I MISSILI» e «RIFUGIO DI LUSSO CONTRO LA CADUTA DEI RESIDUI RADIOATTIVI», Max Aub «doveva» dare alle sue edizioni straordinarie titoli come «LA TERRA È UN SATELLITE ARTIFICIALE» e «DIO CREÒ LA TERRA PER UNA FALSA INFORMAZIONE DELLA C.I.A.».

«Doveva farlo» perché il gioco che aveva intrapreso, certamente, non era solo quello di fabbricare un falso giornale.





  —187→  

ArribaAbajoEsercizi apocrifi: Antología traducida di Max Aub (un ideale omaggio a Borges)

Antonella Cancellier


A Letizia Atzeni, perché ancora non ci siamo abituati alla sua assenza. Con tristezza e rimpianto.

È a partire dalla Historia universal de la infamia, pubblicata nel 1935, che Jorge Luis Borges entra nel gioco di riferimenti apocrifi. A proposito di questa sua raccolta egli dichiara apertamente che si tratta dell'«irresponsable juego de un tímido que no se animó a escribir cuentos y se distrajo en falsear [...] ajenas historias»259. Procedimento analogo risulta, in Antología traducida, quello di Max Aub260, poeta frustrato e privo del «menor sentido de la música» (p. 7), che in veste di curatore presenta e «traduce» testi mai scritti attribuibili a sessantanove poeti minori.

Oltre ai testi «tradotti» quindi l'Antología traducida include una Nota preliminar (pp. 7-9) e delle note biografiche introduttive a ogni poeta, comprese fedeli trascrizioni di interviste, di testimonianze, di articoli e citazioni...; un corredo di note a piè di pagina (inerenti a problemi filologici quali varianti, versetti aggiunti in epoche successive, rigorose note bibliografiche, la catalogazione in determinate biblioteche, glosse, etc.) completa questa parte «esterna» che per comodità metodologica chiamiamo paratesto.

Nella Nota preliminar Max Aub si presenta dunque come curatore e traduttore di testi altrui ricorrendo alle convenzioni delle prefazioni di tale tipo: come in Torres Campalans, al cui paratesto è dedicata una   —188→   parte dell'interessante studio di Eleanor Londero261, spiega la genesi dell'opera, gli inconvenienti che accompagnarono la redazione, la preoccupazione di non essere all'altezza della situazione...; inoltre rivendica il proposito di coerenza della sua poetica di traduttore dichiarando che a una certa corrispondenza formale e a un'altra interna privilegia l'ultima e ad avvalorare la sua teoria della traduzione ricorre, in modo deliberatamente ingenuo, a erudite citazioni da Valera e da Plinio. Secondo le norme accademiche ringrazia per gli aiuti ricevuti e, come vuole il rigore scientifico, si scusa con i puristi per avere semplificato i nomi orientali262.

Nelle note di presentazione ai singoli poeti ribadisce gli stessi topici utilizzando sistematicamente una serie di citazioni vere e false da testi veri e falsi, nominando scrupolosamente luoghi e date, mescolando nomi illustri a falsi nomi, garantendo per alcuni di averli conosciuti personalmente (p. 132) e di aver condiviso esperienze comuni (p. 150), per altri invece gli è risultato problematico il reperimento dei dati ed è incerta la datazione (p. 38) e l'attribuzione dei testi (p. 40). Tutto questo repertorio ha la funzione di rendere verosimile ciò che espone ma il ricorso, tuttavia, a strategie ludiche presuppone una trasformazione parodica delle strutture codificate. Emerge una galleria umana pittoresca e scalcagnata: abbondano gli ebrei sefarditi e i conversos, i perseguitati e gli esiliati di ogni epoca, i nazisti, le spie, i pentiti e gli impostori, i barboni, i dementi, i finocchi, le donne, gli sfaccendati, gli ubriaconi e i suicidi.

Come in Quevedo, come negli Esperpentos di Valle Inclán, Aub dà rilievo ai difetti fisici, ai vizi, e, inserendosi nella tradizione dei poeti trovatori provenzali dove lo schema biografico (inclusi i successi e gli insuccessi amorosi) forma parte della struttura del testo, estende questa   —189→   pratica ad autori di epoche ed aree diverse. Notizie bizzarre («muy amigo de los animales y poco del agua», p. 127) vengono riportate con una serietà sconcertante.

Il curatore documenta fonti, influenze, letture precedenti, corrispondenze fra testi; induce a considerare punti di partenza e di riferimento, segnala affinità di scrittura riconducibili a Withman, a Unamuno, a Quasimodo..., che risultano però assolutamente insignificanti, o paradossalmente ingenue o addirittura prive di senso e che non fanno altro che depistare costringendo il lettore a un viaggio pieno di trabocchetti e sorprese.

Tale retorica della simulazione si spinge ad abbracciare gran parte delle sue modalità. Esiste la poesia scritta a (dichiarata) imitazione di un'altra come è il caso di Yojanan Ben Ezra Ibu Al-Zakkai, sefardita di Salonicco che scrisse in ebraico verso la fine del XVI sec. à la manière de Yrhuda Halevi (pp. 80-82); oppure il caso di Pietro Simonetto, avventuriero, farsante, poeta mistico, traduttore di molti romanzi inglesi, il cui testo presentato nel l'Antología (pp. 90-91) appartiene a una commedia pubblicata nel 1780, forse traduzione o rimaneggiamento di un'opera isabelliana, oggi perduta. Alcuni di questi testi tradotti sono già ritenuti apocrifi dal curatore stesso come il te sto della cretese Asmida che «tal vez no sea suyo sino disfraz de alguna poetisa romana» (p. 15). Simulazione, dunque, maschera, travestimento che produce una sorta di mise en abîme spesso vertiginosa.

Si fonde così il piano della realtà con quello della finzione in un impasto, in una totalità polifonica che configura tutta la struttura di Antología traducida, in una composizione di vasi comunicanti, in una rete di rimandi intertestuali (e intratestuali) e di allusioni più o meno esplicite, più o meno coscienti, che funzionano spesso con strategie che rielaborano, ribaltano, stravolgono e ripristinano storie già raccontate, immagini già avvertite263.

Così il poeta Ti Kappur Maitili (pp. 40-41) viene giustiziato perché «ya que sabía del futuro» non è in grado però di prevedere la data della morte del re, riscrivendo in questo modo la leggenda del poeta della «Parábola del Palacio» di Borges (inclusa in El Hacedor) che fece una fine simile.

Ancora: nella poesia «Las patatas» (p. 113) tira in ballo le Odas elementales   —190→   di Pablo Neruda (l'Ode al carciofo e l'Ode alla cipolla) e pure i personaggi indelebili, «de tinta en papel», vivi sulla carta, ma vivi per sempre, che emergono dal testo di una lettera di Robert Van Moore Dupuit a Rodenbach (p. 107) rinviano a qualcos'altro: alludono, con segno opposto, a Niebla di Unamuno. La struggente ribellione di Augusto Pérez che non vuole morire coincide, ribaltando i vari elementi, con la protesta del lettore del romanzo («éstos quedarán así, en la frase final de la novela -página 305- cuando yo muera»):

DE UNA CARTA A RODENBACH

Estos que aquí están, inmóviles para siempre, de tinta en papel: Raimundo, cabeza cana, nariz roma, boca de espuerta, epidermis sebosa, aniquilado, cariacedo, fuera de combate; frente a Marta, ojos verdes, la frente despejada bajo el cabello castaño, sonriente -los labios ligeramente curvados hacia arriba-, hecha de sal, relajada, mirando pasar el campo por la ventanilla del tren, éstos quedarán así, en la frase final de la novela -página 305- cuando yo muera. ¿Qué hice para no merecer lo mismo? ¿No me inventaron igual, sin pedirlo? ¿No soy, no fui? Ya sé: gozaré de lápida, pero nadie sabrá cómo fui, mientras éstos que veo, de papel, quedarán intangibles. Grabarán mi nombre -mi nombre en una hecatombe-, una fecha, un «Rogad por él» impersonal. Trabajé en serio, tomando la vida en serio y ahora -de Pisa a Roma- en el tren, leyendo este libro, envidio los personajes de esta novela que no hicieron nada para llegar a ser.

Queda aquí mi formal protesta contra esta fenomenal injusticia


(pp. 108-109).                


Il gioco di rimandi non si limita a una rete intertestuale ma si estende anche intratestualmente. Il frammento del poema «El cementerio» che Max Aub attribuisce a Guilhaume de Bourgogne (pp. 70-71) rinvia al racconto «El cementerio de Dielfa» dello stesso Aub, basato sulle sue esperienze di esiliato in un campo di concentramento.

Il risultato è un'opera stimolante e provocatoria che richiede la partecipazione attiva del lettore coinvolgendolo, in una sorta di «caccia al tesoro» letteraria, a scoprire via via dimensioni nuove.

L'opera può essere letta come un ideale omaggio a Borges264 non solo   —191→   e non tanto per le possibili coincidenze delle strategie di scrittura ma anche e soprattutto per le affinità della poetica e dell'estetica della ricezione265 che trapelano qua e là nel testo di Antología traducida considerato nella sua totalità:

a) In primo luogo l'equivalenza del processo di scrittura con quello di lettura. Borges ha ribadito più volte che ogni scrittore è rima di tutto un lettore, e ogni lettore è allo stesso tempo un coautore. È così che Aub può far dire a un poeta sefardita di Salonicco, Yojanan Ben Ezra Ibn Al-Zakkai (p. 80), che scrisse in ebraico alla fine del sec. XVI: «Y tú estás ahí, / tranquilamente sentado, / leyendo / lo que los demás escribieron, [...] leyendo como si lo que lees, lo hubieses pensado tú mismo» (Ibid.).

b) La letteratura è come in Borges266 appartenenza plurale; le sue metafore, mera variazione nel tempo. Ecco allora che Julio Monegal Brandão (p. 139) dell'isola di Madera, «Grande, barbón, desgalichado [...] pordiosero de profesión, profesor de griego», morto a Madrid nel 1936 «de mala manera» può riscrivere con le medesime parole ciò che già aveva scritto Bertrand de Crenne (p. 77), poeta del XVI sec.:

BERTRAND DE CRENNE
(1501-1547)
JULIO MONEGAL BRANDÃO
(1901-1936)
ADÁNADÁN
La vez primera que Adán
atravesó a Eva
creyó morir habiéndola matado
con su falo ensangrentado
mas no tenía idea de la muerte
y clamó.
[...]
La primera vez que Adán
atravesó a Eva
creyó morir habiéndola matado.
Desesperado gritó,
-¡Amor! ¡Amor!
Conocía solamente
a la muerte
por los pregones de Dios.

(p.77); (p. 139)                


La provocazione, la sfida di Max Aub consiste nella collocazione dei due poeti in due epoche differenti: è sufficiente questo perché il lettore   —192→   percepisca questi versi, a distanza di quasi una settantina di pagine, in modo differente. Borges lo esprime in modo incisivo in Otras Inquisiciones267: «Una literatura difiere de otra, ulterior o anterior, menos por el texto que por la manera de ser leída: si me fuera otorgado leer cualquier página actual -ésta, por ejemplo- como la leerán en el año dos mil, yo sabría cómo será la literatura el año dos mil».

c) Oltre alla visione della letteratura come diversa «entonación de algunas metáforas»268, per Borges tutte le poesie del passato, del presente e del futuro non sono che frammenti di una sola poesia infinita269. Norman Allstock, quello che stanco di tutto finì a vivere a Hollywood, dichiara in un'intervista a «The Observer», scrupolosamente riportata da Aub, che «La poesía -por serlo- es muy parecida a sí misma desde siempre» (p. 156).

d) Analogamente a Borges, in El jardín de senderos que se bifurcan, per il quale tutte le opere sono opera di un solo autore, atemporale e anonimo, anche per Norman Allstock «La poesía no tiene nombre» (p. 157).

e) E poi ancora: il traduttore come istanza mediatrice. Borges ha espresso più volte le sue idee sulla traduzione poetica. A proposito dei Rubaiyat di Omar Khayyam tradotti da Fitzgerald dice: «Esa obra, debido a la excelente traducción, pasa a ser un admirable poema inglés del siglo XIX y no un admirable poema persa del siglo XI»270. Esemplare in questo senso, anche se spinto alle estreme conseguenze, è il caso dell'autore belga Robert Van Moore Dupuit nato nel 1856 e morto nel 1911 (p. 107). Aub include nella «traduzione» quattro versi di Quevedo per esprimere quello che il poeta volle dire ma che non riuscì a dire così bene. La nota, rigorosamente apposta a piè di pagina, recita: «Utilizo para mi traducción cuatro versos de Quevedo; el poeta belga vino a decir -peor- lo mismo en este poema» (p. 108). Nel frammento di Quevedo, intenzionalmente mutilato e stravolto, che procede dalla silva «Roma antigua y moderna», i quattro versi vengono ridotti a tre, vengono   —193→   soppressi e modificati alcuni vocaboli, alterata la voce dell'emittente e la diatesi verbale (presente > passato). L'interpolazione di Quevedo, quindi, per superare la povertà espressiva del poeta, per chiarire un pensiero confuso.

A Per concludere -ma non per esaurire le analogie-: la salvazione attraverso la poesia. «No hay duda de que entre miles llamados menores existen algunos que escribieron un poema, tal vez dos o tres como los mejores» -premetteva Aub nella Nota preliminar. «Como si Dios hubiese querido marcarlos, manteniéndolos a flote, salvándolos del olvido, de un hilo» perché «el que haya escrito un solo verso verdadero se salvará» (pp. 7-8). E si salva Hagesicora, famosa conduttrice dei cori femminili spartani; Asmida, poetessa cretese del VII sec a.C.; Publio Nervo, famoso pederasta romano, maestro dell'imperatore Graziano; Josep Ibn Zakkarya, di famiglia ebrea, padre o nonno del cabalista omonimo; Pere Porfiat che morì giustiziato, a ragione, a Marsiglia; Alfredo de Alcalá che tradusse i Proverbi «trufándolos de reflexiones personales y aun haciendo contrasentido»; Juan Manuel Wilkenstein che, come dicono i suoi contemporanei, non uscì mai dalle taverne; e Guillermo Brakett, uomo taciturno amico della birra e Rosa Maaktara che morì d'amore, e anche Juan Antonio Tiben che perdette tutta la sua fortuna nel 1928 a causa di una famosa stella cinematografica, e Gustav Rosembluth e Luigi Coevo, Arthur Maddow, e pure Max Aub... L'antologo e traduttore Max Aub ha voluto salvare anche il poeta Max Aub, quel poeta che, «Aunque sale su nombre con cierta periodicidad sospechosa en libros y revistas, no se sabe dónde está» (p. 148). Ed è ancora, di nuovo, il fantasma del grande Borges a condividere il miracolo: «[...] aunque ciego y quebrantado, / he de labrar el verso incorruptible / y (es mi deber) salvarme»271.



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ArribaAbajoFalsi generali. Franco e il suo doppio in Max Aub e in Manuel Vázquez Montalbán

Carla Perugini


«-¡Han asesinado a Franco! Palabra, acaban de decírmelo en la Dirección General...

-Bulo.

-Te aseguro...

-Bulo. Ya vino antes Jiménez con el cuento. En la redacción no saben nada. Ni en la Presidencia.

-No lo dicen...

-¿Por qué? ¿Para evitar el dolor popular? ¡Anda y que te ondulen!»272.


Così, all'insegna del falso propagato ad arte, Max Aub cercò una prima volta di assassinare Franco, inserendo un «bulo», una vox populi, nelle ultime conversazioni da caffè di una Madrid esagitata, alla vigilia della caduta in mani nemiche, in un clima di si salvi chi può, quando la speranza estrema era affidata a una scomparsa del Generale tanto precoce quanto inverosimile.

E forse perché «l'impossibile verosimile è da preferire al possibile non credibile» (Aristotele, Poetica, 1460a, 18-25), Aub ci riprovò, sopprimendo definitivamente il Generale, promosso a Generalissimo, ne La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco273, con un clamoroso attentato. Soltanto «de papel», però, così come inventato era lo sgangherato terrorista che lo esegui. Dieci anni dopo, lo scrittore, rimettendo per la prima volta piede in Spagna, come racconta nel suo «Diario Español», La gallina ciega274, fu costretto ad ammettere che, fra le tante cose perdute di un paese che non c'era più, erano svaniti anche l'asprezza e la pericolosità della lotta politica, svenduta in cambio di   —196→   una generale mediocrità dell'esistenza: «Ya no hay bandidos debido a la multiplicación de los bancos. (...) Ya no hay atentados. La muerte ha pasado a ser exclusiva del Estado»275.

Il Moloch onnipotente che fu lo Stato franchista divorò o espulse i corpi dei suoi nemici, disperdendoli sotto o attraverso la terra. Tanti di quegli esuli raggiunsero le Americhe, dove ricostituirono una Spagna in sedicesimo, con le sue rivalità e le sue fazioni politiche, gli infiniti distinguo e le immancabili, fatali lacerazioni delle sinistre.

Nel suo racconto, Aub, con l'abituale ironia che gli permette di non cedere a simpatie di parte, e con quell'abilità descrittiva che in pochi tratti scolpisce un carattere, ricostruisce l'atmosfera di un pacifico caffè messicano, luogo d'incontro di abitudinari e prevedibili clienti, ma luogo dello spirito per il suo più antico cameriere, Ignacio Jurado Martínez, «Nacho», che della riconoscibilità e della fissità del Café Español ha fatto tutt'uno con sé stesso, ugualmente abitudinario e prevedibile, armoniosamente aproblematico. Sulla familiare scena, fra un'ordinazione e uno spostar di seggiole, si svolgono commedie con attori e spettatori immutabili, ingessati in ruoli fissi, dove anche le discussioni politiche avvengono secondo copione, lasciando tutti felici e contenti. Stella polare nel cuore della città, il Caffé ha permesso che il resto dell'urbe gli crescesse attorno: «De dos a tres y media, el café se puebla de oficinistas: de Comunicaciones, de Agricultura, del Senado, de Correos, de Bellas Artes, del Banco de México, de Ferrocariles, cuyos edificios fueron construidos alrededor del 'Español'»276.

In questo spazio atemporale la narrazione si svolge quasi esclusivamente al presente: non è un presente storico, perché qui la Storia non ha accesso, ma una sospensione del tempo verbale, dove i gesti tranquilli e le voci ovattate fluttuano come in un acquario.

Preannunciata da uno spazio bianco nella pagina e dal brusco passaggio al «pretérito indefinido», irrompe nel racconto, e nella vita di Nacho, sconvolgendoli, la schiamazzante turba dei rifugiati spagnoli. Col loro arrivo tutto cambia: come segatura, il pavimento si lorda delle loro «ces» («Sus ces serruchan el aire; todo ese aserrín que hay por el suelo, de ellos viene», p. 32); i serafici messicani diventano sordi per il troppo chiasso dei loro reiterati invasori; ma soprattutto viene compromessa la   —197→   stabilità di un sistema in equilibrio fra le sue contraddizioni (non è forse il Messico l'unico paese con un Partito Rivoluzionario Istituzionale al potere?): la mente di Nacho cerca invano di mettere ordine fra socialisti di ogni tendenza, anarchici divisi, ex-combattenti di milizie ostili, arrabbiati di tutte le Regioni. E in più, come un tarlo, il ritornello conclusivo d'ogni polemica: «Cuando caiga Franco...», «Cuando caiga Franco...», «Aquello no puede durar...».

È dunque costui, il Nemico, l'unico agglutinante delle forze separate? Potrà la sua scomparsa agire come forza centripeta, rimettendo insieme le schegge impazzite dell'Opposizione? Dopo vent'anni di questi discorsi, Nacho azzarda la mossa decisiva contro l'esercito invasore, e il 12 marzo del 1959, risoluto a eliminare la causa di tutti i suoi guai, parte, con falso passaporto, per la Spagna. Il suo piano ha l'infallibilità dell'incoscienza e dell'invincibile desiderio della vendetta: travestito da militare americano, si avvicina senza problemi al palco da dove Franco e il suo pettoruto corpo di Generali assistono alla sfilata che rievoca l'insurrezione e gli spara un solo colpo, micidiale, risolutivo. Risolutivo? Forse per l'esistenza terrena del Generalissimo, non certo per i problemi del suo assassino: tornato in Messico, e ripreso il suo lavoro, scopre con orrore che altri rifugiati si sono uniti ai primi, esiliati dal nuovo Regime, aggiungendo disordine a disordine.

È curioso notare come l'asse referenziale intorno a cui ruotano, volenti o nolenti, tutti i personaggi del racconto, ovvero Francisco Franco, compaia solo per evocazione, nel titolo e nei discorsi degli esiliati, occupando di persona solo un paio di righe nella narrazione. Lo vediamo avvicinarsi al nostro campo visivo quando Nacho lo prende di mira: ci appare «serio», è questo l'unico tratto che lo distingue. Poche linee più sotto, cade e scompare definitivamente, dietro una frase lapidaria: «El generalísimo se tambaleó» (p. 29).

Mai incursione nella Storia fu più rapida, né la sua descrizione più concisa. Ma neppure mai falso storico fu più distante dalla realtà, sia per la data prescelta per la morte del dittatore (il suo destino si sarebbe compiuto ben oltre i vent'anni di potere), sia per la maniera di morire, che fu tutt'altro che improvvisa e repentina.

Eppure queste considerazioni extra-testuali nulla tolgono alla verisimiglianza del racconto: nonostante qualche pervicace impegno a voler considerare la narrativa specchio della realtà, sappiamo che la fiction, proprio perché tale, sottostà a categorie formali e ontologiche proprie,   —198→   «in quanto per definizione il romanzo "finge" di raccontare eventi realmente accaduti»277.

Nella logica del racconto di Aub, è perfettamente plausibile che l'identità Spagna/anarchici, tante volte sbandierata dagli esuli, porti a un attentato e che questo riesca: meno plausibile è che a organizzarlo debba essere qualcuno del tutto estraneo alle cose di Spagna. Ma questo è appunto uno di quei «segnali di genere» di cui parla Eco, ovverossia quelle spie inevitabili che denunciano il «patto finzionale» fra scrittore e lettore, grazie alle quali anche il più sprovveduto fra i lettori, suppostamente ignaro degli avvenimenti storici degli ultimi quarant'anni, intende le regole del gioco e accetta di starci.

Il gioco di scambio fra verità e finzione diventa tanto più inestricabile quanto più avanza sullo scivoloso terreno della Cronaca o della Storia. Quando fra le pieghe del racconto si mescolano le gesta e le parole di un fittizio cameriere messicano con quelle di Siqueiros e di Diego Rivera, quando un presunto fuoruscito portorichegno serve al tavolo di Octavio Paz, allora si deve riconoscere a colui che muove i fili la stupefacente qualità del grande illusionista, il rinnovato sortilegio della menzogna, come quella che ci sbalordisce quando nel mondo dei cartoons si intromettono gli attori in carne e ossa.

E tuttavia, ha forse la narrazione storica, quella basata su documenti e testimonianze, il suggello della verità? Gettare luce sul buio non rischia di celarci la verità del buio? Registrazioni minuziose e ricerche scientifiche non riprodurranno mai fino in fondo la verità dei singoli che quella storia hanno fatto. È quanto drammaticamente esprime un personaggio senza nome de La gallina ciega, ex-internato a Mauthausen, compagno di prigionia dell'autore a Vernet, disincantato scrittore di un libro sui campi di concentramento, che, in conseguenza del suo amarissimo e lucido ragionamento, giunge ad equiparare verità e invenzione, in uno sconsolato gioco delle parti: «La sinceridad es tan falsa como la invención. Lo inventado tiene una base tan real como lo sucedido»278.

Ma la Storia Ufficiale non ammette interferenze: perché il segnale della «Verità Storica» arrivi forte e chiaro senza rumori nel circuito di trasmissione, bisogna che esso si dirami in una situazione il più vicino possibile alla temperatura dello zero assoluto. Questo è il senso della   —199→   criptica epigrafe che Manuel Vázquez Montalbán pone all'inizio del suo ponderoso volume, Autobiografía del general Franco, con un riferimento alle leggi della fisica di Einstein, che solo a lettura ultimata si spiegherà compiutamente. Inutilmente lo scrittore incaricato di costruire una biografia del Generalissimo a mo' di autobiografia, alterna, come contrappunto, la propria verità e quella di numerosi altri testimoni, antifranchisti e non, a quella, apodittica, del protagonista. L'editore, liberal ma attento al mercato, gli impone di tagliare tutti i ruidos, tutte quelle informazioni, giudizi e opinioni, cioè, che ostacolano il passaggio diretto del messaggio della voce di Franco alle generazioni del futuro, la diretta comunicazione dall'emissore al ricevente. Dal punto di vista inverso, quello del perseguitato politico, dell'antifranchista militante, che ha sofferto la tortura e il carcere sulla pelle propria e su quella di persone care, «el ruido» fu il franchismo, «eso sí fue un ruido que interrumpió el mensaje de la democracia... de la libertad...»279. Ma l'editore lo blocca brusco: «Corta el rollo, Marcial, no me hagas el mitin» (ib.). Le sconsolate conclusioni dello scrittore, coinvolto, malgré lui, nell'operazione editoriale di dare voce, nel vuoto assoluto, a colui che le voci degli altri imbavagliò sempre, sottolineano l'ambigua tendenza di una certa parte della storiografia contemporanea di azzerare le differenze fra chi la dittatura l'esercitò e chi la subí, in un'asettica redistribuzione di responsabilità che eguaglia franchismo e antifranchismo, violenze rosse e violenze nere, martiri e aguzzini. In questa scrittura di una storia in cui «no caben los ruidos, sean gemidos o gritos de rabia y terror» (p. 663), le noterelle audiovisive, dedicate in un dizionario enciclopedico del futuro a Francisco Franco Bahamonde saranno, molto probabilmente, ridotte a questo: «Militar y político español (...). Destacó en las campañas africanas de comienzos de siglo y comandó el bando nacionalista durante la guerra civil española (1936-1939) frente al bando republicano. Jefe del Estado hasta su muerte en 1975, gobernó con autoridad no exenta de dureza, pero bajo su mando se sentaron las bases del desarrollismo neocapitalista que hizo de España una mediana potencia industrial en el último cuarto del siglo XX» (p. 663). Questa sobria epigrafe fa il paio, curiosamente, con quella che Max Aub premise al suo diario spagnolo de La gallina ciega, con una sorprendente lungimiranza:   —200→  

«Texto que debe leerse en filigrana a través de todas las hojas de este libro. Aquí está presente quien quiso ser marino, fue cadete del Alcázar toledano, teniente en el Ferrol, capitán marroquí en 1915, comandante a los 23 años; dio el Tercio con él y a poco fue teniente coronel. Matamoros no le llamaban, pero lo fue. Coronel por méritos de guerra, general a los 33 años, la República le dio ocasión de ejercer su talento; aplastó en 1934 las sublevaciones de Asturias y Cataluña; preparó la suya de acuerdo con Sanjurjo, Mola, Queipo, Cabanellas y otros generales republicanos. Venció. Murieron muchos. Durante más de 30 años supo llevar a España por el camino que le señaló, en 1936, su ex jefe, en Salamanca; el del silencio y de la ignorancia. Nunca le importó la palabra dada. Fue un político verdadero y quedará de él recuerdo imperecedero. No por nada su monumento se llama, con justicia, el Valle de los Caídos»


(p. 12).                


Privo delle generalità anagrafiche, il Generale prende corpo, in queste poche righe, con tutte le prodezze della sua ferocia e le meschinità del suo potere. Economia di mezzi ed efficacia di messaggio. Non altrettanto si può dire del romanzo di Vázquez Montalbán. Pur riconoscendo all'autore una lodevole opera di ricostruzione storica, di accumulo di materiale d'epoca e di abilità mimetica nello scrivere «a la manière de», riproducendo tutti i tic e le manie del Generale, si resta perplessi di fronte al prodotto compiuto, a cui la definizione di «novela» sembra limitata alla nota di copertina. Se proprio dovessimo etichettarlo sotto questa dicitura, ci parrebbe opportuno ampliarla in «romanzo d'epoca», secondo le categorie di Edwin Muir, che ne sottolinea la pertinenza, non risolta, fra due generi contrapposti: «il romanzo d'epoca e realmente un tipo spurio di storia che di quando in quando fa una puntata nella narrativa. Non è mai l'una e l'altra cosa allo stesso tempo; quando è d'aiuto allo studioso di scienze sociali, non ha alcun valore per il critico letterario, e viceversa»280.

Per dare un'apparenza romanzesca al suo lavoro, Montalbán lo inquadra, secondo uno degli stereotipi letterari più abusati, in una cornice, che ha anche la funzione di luogo di transito della voce narrativa dall'autore, al narratore al di fuori della storia, quindi al narratore dentro la storia. Le ultime due voci si alternano in una sorta di canto amebeo,   —201→   il cui reiterarsi nel corso di centinaia di pagine determina assuefazione e stanchezza in chi legge, oltre che un senso di stucchevolezza artificiosa.

Partiamo dal paratesto: già nel titolo lottano le due componenti dell'epoca: un'autobiografia scritta da un altro è una contraddizione in termini, e tuttavia, quanto c'e di fittizio nel primo termine, viene smentito dal secondo sintagma, visto che il presunto autore della stessa appartiene alla storia, e quanto vi si narra è perfettamente degno di fede. Anche l'immagine riprodotta in copertina, l'agiografico ritratto del Generale di I. Zuloaga, riassumendo in sé quanto di più convenzionale e allegorico poteva attenere al soggetto, non fa che accentuarne l'inverosimiglianza. È questa dunque la cifra iniziale dell'Autobiografia, eppure, come in tutti i romanzi in cui l'autore si spaccia per trascrittore di qual cosa di non suo, i principali obbiettivi a cui essa tende sono la verosimiglianza e l'imparzialità.

Per assicurare la prima, oltre che l'ovvia presenza di fatti storici incontrovertibili, il Narratore accresce le prove di garanzia entrando, per così dire, nella pelle del suo protagonista (e secondo Narratore), aderendo ad essa con perfetto mimetismo. È quindi la viva voce di Franco che noi crediamo di ascoltare, intrusi destinatari di un messaggio che la finzione narrativa vuole rivolto dal decrepito dittatore alle giovani generazioni. Poiché la scelta autobiografica, se da un lato aumenta la credibilità del racconto, dall'altro riduce la quantità d'informazione trasmittibile a causa dell'univocità del punto di vista, il primo Narratore si vede costretto a una continua correzione di rotta, inserendo nuove voci narrative che assicurino la polifonia dell'opera. Quest'operazione, se soddisfa il criterio dell'imparzialità, conduce però a una superfetazione di dati, documenti e testimonianze, incontrollabile.

Fra tante voci, s'inserisce poi il «continuum» della voce del Primo Narratore, che, con il patetismo autentico delle proprie vicende, rende caricaturale lo sforzo del Caudillo di presentarsi come Uomo-della-Provvidenza e Politico-malgré-lui.

È riuscito il tentativo di Vázquez Montalbán di creare un altro Franco? Le condizioni necessarie e sufficienti per autorizzare una buona contraffazione ci sono tutte, compresa quella «pretesa di identità» di cui parla Umberto Eco281. Pur facendole la tara nel ricordare l'affermazione   —202→   di Todorov: «Dès que le sujet de l'énonciation devient sujet de l'énoncé, ce n'est plus le même sujet qui énonce. Parler de soi-même signifie ne plus ètre le même soi-même»282, si può affermare che il Doppio creato da Vázquez Montalbán possiede tutte le premesse per essere credibile.

Anche la cornice, ossia gli interventi del Primo Narratore, differenziati anche graficamente dall'uso alternativo del corsivo e del tondo, ha una sua dignità rievocativa, specialmente quando riporta aneddoti familiari o fatti curiosi.

E tuttavia, oltre al fastidio derivato da quel rivolgersi direttamente al Generale per contestarlo, in un dialogo che non esiste, visto che si tratta di tanti monologhi giustapposti, al lettore rimane la sensazione di un fallimento letterario. A una successione rapsodica di episodi (la cornice), che potrebbero meglio figurare in un'ipotetica antologia su «I Protagonisti della storia di Spagna», si accosta un ampio racconto di gesta (l'autobiografia), senza che i due piani dell'opera riescano a saldarsi in un disegno omogeneo. Quel Franco che pontifica, discetta e opina su tutto lo scibile umano, paradigma del perfetto Spagnolo, è cosí uguale al suo eroe eponimo da sembrarne la caricatura. Questo mimetismo esasperato, privo di spunti ludici e d'ogni traccia di humour, finisce per creare una sorta di prevedibile pupazzo, buono per un Museo delle Cere.

Concludo: dal forzato connubio delle due opere analizzate, vien quasi da prestare più fede al Franco di Max Aub, morto per mano di un cameriere messicano, che al Franco di Vázquez Montalbán, spirato nel proprio letto. Ma va da sé che in fondo sappiamo tutti che siamo compartecipi di un gioco, di una menzogna, quella del romanzo, della «resficta» di ciceroniana memoria. Come ricorda Oscar Tacca: «el género "novela", en fin, y especialmente la novela de autor-transcriptor, podría repetir lo que Barthes hace decir a toda la Literatura: "Larvatus prodeo, me adelanto señalando mi máscara con el dedo283.






ArribaGli autori

ANTONELLA CANCELLIER è ricercatore di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso l'Università di Siena. Si occupa prevalentemente di dialettologia ispanoamericana e di metodologia della traduzione con particolare riguardo ai testi che presentano peculiarità diatopiche e diastratiche. Nell'ambito più strettamente letterario ha pubblicato studi su Juan Rulfo, José Hernández, Pablo Neruda, Nicolás Guillén, Julio Ricci.

SALVATORE CASILLO e docente di Sociologia Industriale nell'Università di Salerno, Direttore del Centro Studi sul Falso dello stesso Ateneo e del Museo del Falso. Da alcuni anni ha orientato la sua ricerca sulle tematiche della contraffazione nel settore manufatturiero (Falso S.P.A., False imprese e falsi imprenditori, I soldi falsi) e artistico (un incontro-esposizione sul violinista-compositore Fritz Kreisler, autore di 'falsi' inediti musicali di grandi maestri del '700; l'esposizione di 'falsi' aubiani).

MICHELE CESARO insegna Psicologia dell'Età Evolutiva presso l'Università di Salerno. I suoi temi di ricerca vanno dal disagio giovanile ai problemi organizzativi delle diverse agenzie educative. Ultimi volumi pubblicati: Stress e vita quotidiana (1990); Il benessere psicologico del bambino. Prevenzione e tossicodipendenza (1992).

MIGUEL ÁNGEL GONZÁLEZ SANCHIS e Direttore della «Biblioteca-Archivo Max Aub» di Segorbe. Ha curato l'edizione critica di diverse opere di Aub, tra cui Fábula Verde e Cuentos Ciertos, e ha promosso molteplici iniziative in ricordo dello scrittore valenciano, tra cui gli incontri che annualmente si celebrano a Segorbe in occasione dell'anniversario della sua nascita.

ROSA MARIA GRILLO insegna Lingua e Letteratura Ispanoamericana nel l'Università di Salerno. Si occupa di letteratura spagnola contemporanea (pubblicazioni su Bergamín, Lorca, Gil-Albert, «Hora de España» e in genere sulla letteratura dell'esilio) e latinoamericana (Quiroga, Benedetti, letteratura di viaggio, narrativa sull'emigrazione).

ROMÁN GUBERN dal febbraio 1994 al settembre 1995 è stato Direttore dell'«Instituto Cervantes» di Roma, professore di Storia del Cinema in diverse Università nordamericane ed europee (Los Angeles, Pasadena, Barcelona), è presidente della Asociación Española de Historiadores del Cine e membro del Comité de Honor de la Association Internationale de Semiologie de l'Image. Tra i suoi libri ricordiamo: Historia del Cine, La caza de brujas en Hollywood, Godard polémico, El cine sonoro en la II República, Benito Perojo. Pionerismo y supervivencia.

HUB HERMAN è docente di Letteratura Spagnola nell'Università di Groningen (Olanda), e direttore del Dipartimento di Lingue e Culture romanze della stessa Università. Ha pubblicato libri e articoli sulla letteratura spagnola degli anni '30, le relazioni culturali tra Spagna e Paesi Bassi, la nuova letteratura latinoamericana e la cultura 'chicana'.

ELEANOR LONDERO è ricercatore presso l'Università della Calabria. Si è occupata di letteratura spagnola contemporanea pubblicando diversi studi su A. Machado, sui rapporti culturali fra avanguardia argentina e spagnola e sull'opera di alcuni scrittori dell'esilio, tra cui Francisco Ayala, Ramón Sender e Max Aub.

ACHILLE MANGO e docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo nel l'Università di Salerno. I suoi interessi di studio, di carattere prevalentemente teorico, spaziano dagli interventi sulla teatralità seicentesca (Dentro il teatro; Dentro la Finzione) agli studi sulle teorie della recitazione (Le teorie della recitazione) alle problematiche relative al teatro antico (Il teatro in lingua nel Cinquecento; La Commedia dell'Arte fra Cultura e Storia) e contemporaneo (Per un teatro analitico esistenziale).

SILVIA MONTI è docente di Lingua e Letteratura Spagnola nell'Università di Lecce. Ha pubblicato studi sulla letteratura del '400 e del 'Siglo de Oro' e, in collaborazione con M.V. Calvi, il dizionario italiano spagnolo Nuevas palabras. Il suo più recente interesse va al teatro spagnolo contemporaneo (Sala d'attesa. Il teatro incompiuto di Max Aub).

PILAR MORALEDA GARCÍA è docente di Letteratura Spagnola nel l'Università di Córdoba. Si è interessata principalmente di letteratura teatrale (Góngora, Lope de Vega, Calderón, Salazar y Torres, Buero Vallejo). Ha dedicato due monografie a Pedro Salinas (El Teatro de Pedro Salinas) e a Max Aub (Temas y Técnicas del Teatro menor de Max Aub); del primo ha curato l'edizione del Teatro Completo, del secondo è in corso di stampa l'edizione critica di Yo vivo.

VERONICA ORAZI, dottoranda, si è dedicata in ambito ispanistico allo studio di aspetti linguistici (dialetto asturiano-leonese, tecnicismi giuridici), delle varianti in Valle-Inclán, del monologo nel teatro di Max Aub, delle Serranas di Juan Ruiz. Attualmente e interessata alla letteratura catalana (un codice inedito del XIV sec. e la novellistica tardo medievale).

JOSÉ ANTONIO PÉREZ BOWIE è docente di Teoria della Letteratura nel l'Università di Salamanca, dove ha discusso la sua tesi dottorale (El lenguaje de la muerte durante la Guerra Civil española: ensayo de descripción). I suoi interessi principali si indirizzano verso l'analisi del discorso politico, il teatro del XX secolo (sia dal punto di vista sociologico che semiotico) e in generale la letteratura della Repubblica e della Guerra Civile. Ha curato l'edizione critica de La calle de Valverde di Aub.

CARLA PERUGINI e docente di Lingua e Letteratura Spagnola nell'Università di Salerno. Si è occupata di poesia del '27, di narrativa del Romanticismo, di letteratura fantastica, di Gustavo Adolfo Bécquer, e delle cronache della conquista del Perù. Nell'ambito di una ricerca fra i rapporti culturali fra Italia e Spagna fra Quattro e Cinquecento ha pubblicato il Testamento de Doña Juana III, reina de Nápoles e l'edizione critica della 'novela sentimental' Question de amor.

DARIO PUCCINI e docente di Lingua e Letteratura Spagnola presso l'Università di Roma «La Sapienza», dove precedentemente aveva in segnato Letteratura Ispanoamericana, e direttore della rivista trimestrale «Letteratur e d'America». Ha pubblicato libri e saggi su entrambi i rami delle lettere ispaniche: Romancero della Resistenza Spagnola; Miguel Hernández, vita e poesia; Sor Juana Inés de la Cruz, personalità del barocco messicano. Ha tradotto in italiano il Manual de Literatura Española, San Juan, El desconfiado prodigioso, El regreso e Los muertos di Aub.

ANGELO TRIMARCO insegna Storia della Critica dell'Arte nell'Università di Salerno. Ha pubblicato ricerche sulla storia sociale e la teoria psicoanalitica dell'arte (L'inconscio dell'opera. Sociologia e psicoanalisi dell'arte, 1974, Itinerari freudiani. Sulla critica e la storiografia dell arte, 1979, Materiali critici, 1993). Ha studiato le avanguardie storiche (Surrealismo diviso, 1984) e si e occupato delle vicende artistiche degli ultimi decenni (La parabola del teorico. Sull'arte e la critica, 1982; Confluenze. Arte e critica di fine secolo, 1990; Il presente dell'arte, 1992).