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Abajo

Quasimodo fedeltà a una vocazione

Rinaldo Froldi



Perchè non accostarsi all'Europa, perchè chiudersi ancora nella provincia?





Le ultime raccolte di liriche pubblicate da Salvatore Quasimodo: «Giorno dopo giorno» e «La vita non è sogno», al loro apparire, qualche anno fa suscitarono, com'è noto, vivaci polemiche.

Da una parte si gridò al fatto nuovo: Quasimodo aveva rotto con l'ermetismo, Quasimodo contribuiva anzi con la sua autorità indiscussa a liquidare un movimento la cui fine già da più parti si preconizzava.

Da un'altra parte il «nuovo» Quasimodo parve tradire un nobile e austero concetto di poesia per una discutibile concessione a valori contenutistici o facile aspirazione a un più vasto pubblico. Poi la polemica si smorzó in una più meditata indagine critica e ci fu chi seppe sottolineare la continuità della voce del poeta, nel suo allargarsi verso nuovi impegni, torse più profondi.

Certo negli anni della guerra ed in quelli dell'immediato dopoguerra era maturata nell'uomo Quasimodo una nuova condizione spirituale.

Chi non ricorda la sua Conferenza del '47 (pubblicata anche sulla Fiera Letteraria, numero 26) «Sulla poesia contemporanea»?

Là Quasimodo dichiarava per sè e per gli altri (egli pensava sopratutto ai giovani) la necessità di una più umana partecipazione della poesia alla vita, reagendo al chiuso tecnicismo di una letteratura che per essere troppo raffinata poteva benissimo confondersi con un edonistico gioco.

Più che un rifiuto delle conquiste formali dell'ermetismo era quello un rifiuto delle degenerazioni del movimento perduto nella sottile elaborazione di stilemi, avulsi dalla vita e, cosa ancor più grave, imperante attraverso i grandi esponenti della critica, in una specie di «reggenza» di nomi consacrati, vincolo insormontabile ai più giovani.

In piena coerenza con la professata poetica, per Quasimodo si trattò di impegnare più profondamente se stesso, fuori di ogni definitiva situazione, in stretto contatto con la vita, non abbandonandosi alle sue esterne sollecitazioni ma aderendo nello spirito al suo pulsare, per coglierne, in se stesso, la verità.

Ma in «Giorno dopo giorno» e «La vita non è sogno» è poi riuscito al poeta di raggiungere sempre, nel nuovo atteggiamento, un assoluto linguaggio poetico? Forse non sempre e di ciò è consapevole il poeta stesso; ma egli sa altresi che alcune poesie, che potremmo definire in un certo senso «civili», egli doveva scriverle, che avrebbe fatto male a non scriverle e che la strada della poesia è lunga e difficile ma bisogna comunque percorrerla, è non illudersi di percorrerla restando fermi, nella tranquillità di una raggiunta oasi.

L'impegno serio e nobile di Quasimodo ha trovato recentemente pubblico riconoscimento a Taormina dove quel premio letterario internazionale è stato giustamente concesso alla sua opera ormai più che ventennale.

Accanto ai suoi libri noti è stato presentato a Taormina anche un libro nuovo: «Il falso e vero verde», raccolta di sei liriche pubblicate in una edizione per bibliofili da Schwarz, con sei litografie di Manzù. È il poeta stesso che mi mostra, nella quiete del suo moderno studio, la bella edizione che uscirà fra poco al pubblico in edizione numerata di duecento esemplari.

Quasimodo soddisfa volentieri il mio desiderio di sapere qualcosa sulle nuove liriche e mi dichiara ch'egli sente che esse costituiscono un nuovo passo innanzi nella sua ricerca di poeta, nel suo svolgimento che asserisce, non ha mai avuto soluzione di continuità: sono un segno più forte di quella esattezza di linguaggio lirico che gli sembra ora di possedere più di un tempo.

Quasimodo parla a lungo, intensamente, ma con calma, una calma pensosa che gli si muta nel viso in una viva concentrazione del lineamenti, quasi in una espressione fra il triste ed il preoccupato, e sembra trarre le conclusioni di un discorso da lungo tempo incominciato: il suo discorso interiore.

Parla di sé e degli altri poeti della generazione precedente alla sua, della sua, dei giovani e dei critici, spesso assumendo vivaci atteggiamenti polemici.

«La critica italiana -mi dice- per ciò che riguarda la poesia contemporanea sembra pericolosamente ferma in una posizione da cui non si vede come potrà smuoversi. Non ve de lei, per esempio, che non arriva a scoprire alcuna voce di nuovo poeta? Il poeta vero violenta sempre la consuetudine e la critica d'oggi, solidificatasi in aureo soglio, non può accettare questa necessaria violenza. Lei crede che l'Italia d'oggi, fra i giovani, non abbia nessun vero poeta? Io no, io credo che questa voce ci sia anche se difficile è far si che appaia, che esca dal cerchio chiuso della costituita repubblica letteraria degli ermetici cui sembra affidato l'insindacabile potere di giudicare e mandare.

Mi sembra che oggi il giudizio che della nostra letteratura si dà all'estero sia più esatto di quello che si dà in Italia. Perchè non accostarci all'Europa, perchè chiuderci ancora una volta nella «provincia?». Perchè non aiutare i giovani che sentono, credono sanno qualcosa di nuovo? Io, personalmente, voglio fare qualcosa per essi ed ecco perchè ho accettato volentieri l'incarico dell'editore Schwarz di pubblicare una antologia di queste nuove voci. L'opera che uscirà fra marzo e aprile sintitolerà Nuova poesia italiana del dopoguerra. Mi sembra di poter presagire che alcuni di questi giovani che presentero faranno molto cammino».

Dalla poesia dei giovani riporto il discorso alla poesia di Quasimodo ricordando un personale episodio: il vivo interesse suscitato in modo particolare dalla sua poesia in una lettura di contemporanei italiani da me fatta ad un pubblico straniero e precisamente all'Università di Salamanca, tre anni fa.

L'episodio suscita interesse nel poeta che sa che la sua poesia è seguita ed amata all'estero e che il suo nome compare sempre in posizione dominante nei panorami che all'estero si fanno della poesia italiana.

Al riguardo mi parla delle traduzioni della sua opera intera che stanno per uscire in lingua inglese in America a cura di Mandelbaum Allen e in Inghilterra a cura di Christopher Busby. In Germania è uscita invece la traduzione di «Giorno dopo giorno» a cura di K. H. Bolay.

Sono riconoscimenti che fanno piacere al poeta il quale però soggiunge di venire ancor più commosso da certi spontanei, ingenui riconoscimenti di gente semplice alla quale la sua poesia ha parlato.

S'alza e cerca fra le sue carte finchè trova una modesta cartolina postale che mi porge perchè la legga. È una grafia infantile: un bimbo di quinta elementare che a nome suo e di tutti i suoi compagni di classe da un piccolo paese dell'Alta Italia, scrive il suo ringraziamento all'autore de «Il mio paese è l'Italia», la poesia di Quasimodo appresa a scuola.

«Vede -mi dice il poeta- per una poesia come questa io posso concordare con certi raffinatissimi critici nel dire che è non esteticamente perfetta ma è una poesia che sento che io dovevo scrivere. Un poeta non può esimersi dai suoi impulsi Invece attorno a noi cosa si vede? Troppo peso di letteratura e preoccupazioni di cerebrali coerenze, troppi parnassiani sotto mentite spoglie».

Chiedo a Quasimodo del suo lavoro di traduttore ed egli mi precisa che ha da poco terminato la traduzione del «Tartufo» di Molière, un lavoro condotto a ritmo accelerato per la Compagnia di Memo Benassi che lo rappresenterà fra poco a Roma (verrà stampato da Mondadori).

Inoltre devono uscire, presto, nella B.M.M., l'Elettra di Sofocle con una introduzione di Remo Cantoni e nella Collezione teatrale di Einaudi la «Tempesta» di Shakespeare.

Il poeta mi mostra le carte dove attende all'elaborazione delle sue traduzioni e m'appare il lento lavoro creativo, svolto talora in quattro, cinque successive redazioni: un lavoro diligente che smentisce le facili e gratuite accuse di superficialità mosse da taluni al traduttore. Mi parla infine, prima del congedo, delle conferenze (come quelle recenti di Parma e di Bolzano) da lui date sul carattere della poesia italiana. Ciò è per me una conferma di una radicata convinzione: nella sua attività di autore, critico e traduttore una è la preoccupazione dominante: quella del poeta volto ad approfondire il proprio spirito ed elaborare il proprio linguaggio. Certo la fedeltà alla sua vocazione è il carattere principale dell'uomo Quasimodo.

Sdegnando il narcisismo dell'autocontemplazione, egli rifiuta l'indugio e la torre d'avorio e vuol tenere il suo spirito in tensione costante a coglier le cose con voce propria, originale, essenziale, a fissare un segno personale nel moto della vita.





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