—187→
I riferimenti americani sono numerosi nelle commedie di Tirso de Molina. Lo hanno posto in rilievo, tra altri, Alfonso Urtiaga introducendo il tema dell'«indiano248» e specificamente Angela Dellepiane249. Al tema americano il frate mercedario, che per qualche anno era stato a Santo Domingo, dove il suo Ordine lo aveva inviato nel 1615, dedica addirittura una trilogia centrata sulle gesta dei Pizarro. Compongono la trilogia le commedie: Todo es dar en una cosa, Las Amazonas en las Indias, La lealtad contra la envidia. Esse furono composte nel periodo 1626-1629, o, secondo Blanca de los Ríos, tra il 1626 e il 1632250.
Il fatto che le vicende dei Pizarro abbiano interessato cosí vivamente Tirso, da indurlo a comporre addirittura una trilogia —188→ sul tema, non appare strano, se consideriamo la vincolatone che egli dovette avere con la famiglia nel periodo 1626-1629, quando risiedeva a Trujillo come «Comendador» del suo ordine, e il particolare momento in cui essa si trovava, vale a dire in piena campagna rivendicativa, da parte di Juan Hernando Pizarro, dell'onorabilità della casata e con essa del titolo di marchese e dei relativi privilegi economici pattuiti con la corona dal conquistatore don Francisco251.
Conosciamo i fatti che portarono a una prigionia ventennale Hernando Pizarro, per l'uccisione di Diego Almagro il vecchio, e il fratello Gonzalo all'impiccagione come traditore, per aver messo sossopra il vicereame del Perú capitanando le schiere degli «encomenderos», avversi all'abolizione dell'encomienda decisa da Carlo V su pressione del padre Las Casas. Bisognava, quindi, rimontare la china, ristabilire la perfetta legittimità dell'operato dei due, che avevano, all'apparenza, infamato la casata, determinando la decadenza dai titoli e l'annullamento delle prebende. Un pronipote di Francisco Pizarro, conquistatore del Perú e primo marchese della Conquista, aveva provveduto a dare una versione favorevole dei fatti nella cronaca intitolata Varones Ilustres del Nuevo Mundo. L'opera, ultimata nel 1625, ottenne la licenza per la pubblicazione nel 1631, ma apparve alle stampe solo nel 1639. Tuttavia, già nel 1631 Juan Hernando Pizarro aveva ottenuto la riabilitazione e la conferma del titolo di marchese.
È fuor di dubbio che all'amico, frate influente e drammaturgo famoso, Tirso de Molina, i Pizarro abbiano commissionato, se non una trilogia, un'opera drammatica che —189→ contribuisse a sostenere le tesi della famiglia. Probabilmente per ragioni d'ordine affettivo, o forse per la disponibilità generosa a compensare il lavoro, il drammaturgo progettò e realizzò una trilogia.
La prima commedia
della trilogia, Todo
es dar en una cosa, si configura nettamente come una
«commedia genealogica». Tratta, infatti, delle origini
del futuro conquistatore dell'impero incaico, Francisco Pizarro,
immedesimandosi chiaramente con lui per fatto personale. Anche
Tirso era un «bastardo» ed egli sente
profondamente questa situazione, che riflette nel suo personaggio,
e al tempo stesso prova un evidente orgoglio, proprio di chi,
nonostante la macchia di cui è innocente, è arrivato
a compiere cose egregie: Francisco conquistando addirittura un
ricchissimo impero; lui, Tirso, assurgendo alla fama di celebrato
artista, ma anche a cariche importanti nel suo Ordine. E questo
l'«intratexto» che attira, più del testo, e a
ragione, il Ruiz Ramón, il quale afferma che, in
realtà, tutto il teatro classico spagnolo «está esperando
esas varias y posibles lecturas de su otro
texto»
252.
Circa le origini
di Francisco Pizarro non si dimentica facilmente, più che la
condizione di figlio illegittimo, l'umiltà in cui si dice fu
lasciato crescere. Il maggior responsabile di ciò è
il cronista López de Gómara, il quale, forse per
accentuare il contrasto con il suo padrone, Hernán
Cortés, denuncia con la «bastardía»
dell'innocente, che afferma abbandonato sulla porta di una chiesa e
che «Mamó una
puerca ciertos días, no se hallando quien le quisiese dar
leche»
, la bassa incombenza che, dopo il
riconoscimento, il padre gli affidò: «traíalo a guardar
los puercos, y así no supo leer. Diole un día mosca a
sus puercos, y perdiolos. No osó tornar —190→
a casa de miedo y fuese a Sevilla con unos caminantes, y de
allí a las Indias»
253.
Di ciò non v'è traccia, com'è naturale, nel dramma di Tirso de Molina. Francisco vi compare come figlio illegittimo, sí, ma di padre e di madre perfettamente in regola con i quarti di nobiltà; e se è illegittimo, lo è per i soliti equivoci che nel teatro spagnolo del Siglo de Oro allontanano e fanno infelici gli amanti clandestini. Accolto come frutto della colpa di una non identificata nobile fanciulla da colui che in realtà è il nonno legittimo, il piccolo cresce in famiglia nobile e ricca, affidato alle cure amorose di una figlia del vecchio, in realtà sua madre, sviluppando una personalità spiccata, un senso alto dell'onore, nella coscienza della sua condizione, con una dignità che gli permette persino di respingere il padre, al quale, tuttavia, al momento opportuno salverà anche la vita.
Significativo è che egli sia stato deposto nel cavo di una quercia: sarà un uomo forte e deciso. Quando apprende dalla lingua vendicativa dell'irato maestro, con il quale si mostra svagato e indomabile, la sua origine, decide che solo la virtù dovrà essere il suo bene, ed è ben fermo nell'affermare alla madre -che prima di andare sposa ad un altro gli rivela la sua storia- che sarà solo figlio delle proprie opere:
|
Ora appare anche chiaro al giovane il significato del fatto che la palla di legno che lui e Cortés nel gioco si erano contesi si sia spaccata in due metà esatte:
|
Più avanti Francisco, ormai uomo fatto ed esercitato nelle armi, rimproverando il padre per l'abbandono, predirà a se stesso i successi americani futuri. L'impegno di chi è stato abbandonato nell'anonimato è di uscire da esso con le proprie forze. Così Pizarro parla al padre:
|
Facile profezia,
naturalmente, dato che tutto da tempo si era verificato nella
realtà, per gli spettatori, e Francisco aveva avuto
realmente la sottomissione dei fratelli, una volta conquistato il
Perù. Ma il padre non può reprimere qui
un'esclamazione ammirata: «¡Oh hijo! ¡César
segundo!»
La terza Jornada
è ricca di «lances». Una nota di
simpatia finisce per avvolgere anche il padre di Francisco Pizarro
-come poteva essere altrimenti?-, vittima di «malos
mestureros»
, diremmo, e dell'invidia del
«Pagador general», che
sempre interviene subdolamente per impedire il riconoscimento delle
valorose imprese del Capitano Gonzalo Pizarro e il suo prosperare
presso i sovrani. I quali immancabilmente compaiono a sistemare,
secondo l'affermato cliché, le cose: Francisco Pizarro e il
padre, uccisori del loro assalitore, perdonati, staranno tra le
guardie della regina Isabella, presso di lei, quasi a tenerli in
serbo per le prossime, mirabolanti imprese. Che del resto
apertamente promettono entrambi, il Capitano riferendosi a Granada
e alla sua conquista, il figlio al Nuovo Mondo, se Colombo lo
scorpe davvero, incitando anche Cortés a eroiche imprese
americane. Dice Francisco rivolto alla regina:
|
Pizarro che sprona Cortés e che pone il conquistatore del Messico al proprio livello, ma con preminenza su di lui! Cosa avrebbe mai detto Gómara? Tirso de Molina riscatta appieno il suo personaggio, dandogli la dignità di un eroe romano, e in lui riscatta la casata, fin dalla prima commedia, illustrando la figura del futuro conquistatore con qualità eroiche, che risaltano ancor più sulla dimensione profonda di infelicità data dalla nascita infamante e dalla mancanza di confortanti riferimenti affettivi.
La commedia rimane aperta all'annunciata continuazione. Non si tratta, comunque, di un dramma leggero; la sua struttura, infatti, si presenta con frequenza faticosa, per gli eccessivi monologhi, di una lunghezza poco sopportabile. Numerose sono anche le incongruenze, alle quali il pubblico certamente —195→ faceva poco caso, tra esse la passività con cui Beatriz si accinge ad andare sposa ad un pretendente qualsiasi, e l'innaturale confronto polemico in cui la madre pone figlio contro genitore, nella scena IV del primo atto. Ma ancora: il giovinetto Francisco parla come un adulto, e questo non ha senso, come non ha senso l'operato negativo del maestro. Insopportabile è pure la prolissità del discorso di Beatriz al figlio, recriminatorio nei confronti del padre, che ciò nonostante incita ad imitare nel valore. Aggiungerò ancora la difficile comprensione delle alambiccate «ragioni d'amore» nelle scene iniziali del primo atto. Curiosa è anche, almeno per noi lettori odierni, la celebrazione dell'Inquisizione, pur se è comprensibile da parte di un religioso quale era Tirso.
E tuttavia, nonostante queste osservazioni, depurata dei vizi denunciati e superate le prolissità, la commedia raggiunge il suo scopo, dandoci nella figura di Francisco Pizarro quella di un personaggio fuori del comune, destinato a grandi imprese, superando di gran lunga in umanità e decoro l'immagine, mai eccessivamente brillante, sempre un po' grigia, se la confrontiamo con quella splendida di Cortés, che di lui ci hanno trasmesso le cronache, come già aveva riconosciuto il Cotarelo258.
Il finale di
Todo es dar en una
cosa rendeva sicuramente curioso lo spettatore, ansioso di
assistere ai futuri sviluppi della vicenda, e rende curioso oggi il
lettore. La continuazione si ha nel dramma Las Amazonas en las Indias,
opera edita nella Parte cuarta delle commedie di Tirso, a Madrid,
nel 1635, quindi dopo che la famiglia Pizarro aveva visto
riconosciute —196→
da parte della corona le sue ragioni e pretese e riottenuto
il marchesato. Naturalmente l'opera era stata composta e
rappresentata anni prima e di certo aveva avuto successo.
L'entusiasmo del Cotarelo qualifica anche questa commedia, con la
precedente e quella che segue, come «una de las joyas del
teatro de Tirso»
e addirittura parla di
«grandeza épica de
estos tres poemas dramáticos»
, di
cui loda la grandiosità del tema, le situazioni tese, la
versificazione «abundante, armoniosa y
magnífica»
, le «riquezas poéticas
de todo género»
presenti259.
Il nostro giudizio
è più guardingo circa la prima commedia della
trilogia, come si è visto, ma non v'è dubbio che muta
radicalmente allorché si tratta de Las Amazonas en las Indias, per quanto
attiene al valore drammatico e al clima di straordinaria poesia che
introduce la commedia, determinando un felice contrasto. Nel primo
atto, infatti, il dramma suggerisce un paesaggio esotico, che
certamente l'allestimento doveva fare concreto e con particolare
efficacia per lo spettatore; in esso appaiono due amazzoni,
Martesia e Menalipe, armate di asce e bastoni, «y todas ellas con arcos
y aljabas de flechas a las espaldas»
,
intente a lottare contro due «españoles
bizarros»
, Gonzalo Pizarro e Francisco de
Carvajal, suo «maestre de
campo». Suoni di guerra accompagnano la
comparsa dei personaggi in lotta: Gonzalo ha lo scudo coperto di
frecce e, «retirando a
Menalipe, sin sacar la espada, van peleando, entrando y
saliendo»
, finchè i due restano soli
in scena. Li raggiungono presto Martesia e Carvajal, pure intenti a
combattersi.
Un inizio vivace,
anzi rumoroso, come è frequente nel teatro classico
spagnolo, e di sicuro tale da attirare immediatamente
—197→
l'interesse del pubblico, tanto più se consideriamo
che di certo le amazzoni -ma la didascalia non lo dice- dovevano
presentarsi in qualche modo poco vestite. L'improvviso corpo a
corpo tra Gonzalo, deciso a non usare armi contro una donna, e la
regina Menalipe, dà luogo a un solleticante contatto tra
sessi diversi, facendo sì che l'eroico spagnolo si renda
conto dell'efficacia degli occhi della donna che, «apacibles homicidas, /
abrasando, quitan vidas, / victoriosos, quitan
manos»
260,
ma per il pubblico anche di qualcos'altro, della
«diversità», cioè, della bella nemica,
provvista di indubbie grazie261.
Una duplice situazione ripetuta in parallelo -Carvajal e Martesia-, ribadisce il potere dell'amore e in esso l'irresistibile seduzione che lo spagnolo esercita sul mondo indigeno, se entrambe le donne, la regina e la sorella, nonostante la loro natura bellicosa, si innamorano immediatamente dei due uomini, cui promettono meraviglie qualora accettino di unirsi a loro, e persino di mutare radicalmente i crudeli costumi del loro popolo femminile. Dice, infatti, Martesia, che ha funzione di vidente, a Carvajal:
|
L'armonia del verso, la sua scorrevolezza, in tutto il dialogo delle donne con i due spagnoli, dà luogo a un clima delicato, che volutamente sottolinea la castità dell'offerta femminile, ma anche la sua passionalità. In esso la nota mitologica si umanizza. La schermaglia d'amore diviene attraente, mentre il testo sottolinea la diversità dei due uomini: Gonzalo, personaggio raffinato, cavalleresco, ma incorruttibile; Carvajal, furbo e disincantato, propenso a farsi beffe delle persone e delle situazioni, come si mostrerà in tutto il dramma, in accordo con il cliché tramandatoci dalle cronache, ma qui senza sottolineare la crudeltà del terribile «Demonio de los Andes».
Per la parte storica, non pare dubbio, il drammaturgo si rifà alla Historia del descubrimiento y conquista de las Provincias del Perù, —199→ di Agustin de Zárate, e alla Historia general del Perú, dell'Inca Garcilaso de la Vega, oltre che al testo di Fernando Pizarro y Orellana, Varones ilustres del Nuevo Mundo. Il suo impegno principale è quello di riscattare da ogni macchia di tradimento e di ribellione Gonzalo Pizarro, finito sul patibolo dopo la sconfìtta di Xaquixaguana. L'amazzone Martesia predice a Gonzalo e a Carvajal triste destino se continueranno a muoversi nell'ambito ispanico, mali che eviterebbero se si stabilissero con le donne guerriere.
Alla fine del
primo atto è dato risalto da Tirso al furore omicida di
Diego Alamagro, il Giovane, che nel sangue del marchese Francisco
Pizarro vendica il padre, giustiziato da Fernando Pizarro, proprio
per questo motivo prigioniero in Spagna. Ogni cosa negativa ha
inizio dalla sconsiderata azione di don Diego, deciso a coronarsi
«monarca de los Andes», ad
essere, nella sua sete vendicativa e megalomane, «¡O César, o
nada!»
263.
Con poche
allusioni alla fine di Francisco Pizarro, la figura del
conquistatore è liquidata, ma il suo prestigio si proietta
sul fratello Gonzalo: «el
marqués resucita / en don Gonzalo
Pizarro»
, proclama Vaca de
Castro264.
Ciò che interessa Tirso è non tanto di celebrare il
marchese, quanto di riscattare da ogni colpa Gonzalo, la cui
onorabilità e fedeltà al sovrano è più
volte ribadita dalle sue stesse parole. Gli storici sono ormai
concordi nel considerare che il conquistatore fu trascinato suo
malgrado nella lotta, prima con regolare investitura; anzi, il
Sànchez-Barba sostiene che fu Francisco de Carvajal a
forzare la situazione radicalizzandola, mentre all'inizio la
posizione —200→
di Gonzalo Pizarro era semplicemente quella di un uomo che
aveva ricevuto il comando dal «Cabildo» del Cuzco
«para defender un derecho
democrático y para impedir la ruptura del sistema
básico de la vida
indiana»
265.
Tirso de Molina insiste proprio su questo motivo. Egli ci presenta l'eroe, un eroe infelice e leale che, ritiratosi a Las Charcas, attende le decisioni dell'imperatore circa la sua successione al fratello assassinato nel governo del Perù. Nel volontario isolamento il guerriero intesse un elogio alla «vida retirada», manifesta disprezzo per la ricchezza, temi che dovevano essere cari al frate autore della commedia. Ciò avviene nel terzo atto, ma nel secondo il convincente e arguto racconto dell'avventura della «Canela» da parte di Carvajal -racconto nel quale intervengono elementi di controllato umorismo-, impone al pubblico un Gonzalo di carattere eccezionale, coraggioso, e proprio in questo senso lo stesso Vaca de Castro lo sottolinea:
|
Un precedente
discorrere tra Vaca de Castro e Carvajal sulla morte di Francisco
Pizarro aveva portato alla conclusione —201→
che «Para el cielo
no hay más fama / que el bien
morir»
267.
Una sorta di preludio alla tragica fine di Gonzalo Pizarro,
condannato e giustiziato, ma innocente dei delitti di cui fu
incolpato. Almeno per i suoi estimatori, come l'Inca Garcilaso, che
lamenta apertamente non avesse accettato la corona reale del
Perù268,
e certamente in modo programmatico per Tirso de Molina. E un finale
che, con molta abilità, senza portarlo sulla scena
materialmente, il drammaturgo prepara con appropriate
considerazioni anche intorno alla morte, richiamando Manrique e i
suoi fiumi, le vite, «que
van a dar a la mar / que es el
morir»
269.
Infatti, cercando di consolare la nipote doña Francisca -che
intende sposare, al fine di dare continuità al titolo- per
la morte del padre, Gonzalo si mostra disincantato circa i valori
correnti della vita, teso invece a dare un'interpretazione tutta
cristiana all'esistere:
|
Di fronte all'arguto Carvajal, capace anche di caricare di parodico concettismo, alla moda del tempo, la sua pittoresca, oltre che drammatica, relazione dell'impresa della «Canela» -dove denuncia, con il tradimento del «falso pariente» Francisco de Orellana, il quale su un brigantino di fortuna abbandona Gonzalo e la sua gente, laceri e malati, seguendo il Maranón e quindi il rio delle Amazzoni, per poi raggiungere la Spagna, il difficile incontro con le donne guerriere-, sta un uomo integro, in ogni momento rispettoso della legge e fedele al sovrano, che solo si pone a capo di coloro che protestano per evitare mali maggiori al vicereame: il ritorno degli indios, nella confusione di poteri, all'idolatria, il riscatto della nipote offensivamente imprigionata dal viceré Blasco Nunez Vela e posta nella pericolosa custodia dei soldati, il danno al tesoro reale per mano dello stesso rappresentante regio, suo mortale nemico.
Ma con tutto
questo, l'eroe non colpirebbe che superficialmente la
sensibilità del pubblico per le sue imprese. Al fine di
penetrare in profondità nell'animo dello spettatore occorre
che l'eroe sia anche infelice, che abbia una fine tragica, degna di
compassione. È quanto si verifica per Gonzalo, nonostante
che le due innamorate amazzoni, Menalipe e Martesia, tentino
in extremis di
salvarlo, quest'ultima intervenendo con arti magiche per
raggiungere lui e Carvajal. Ora il ruolo del gracioso passa alla guardia
Trigueros, che invano si oppone alle due donne. Una scena
divertente, questa, in cui il poveretto si stupisce di trovarsi di
fronte a due «tapadas de
—203→
medio ojo, a lo español»
.
Sapidi giochi di parole condiscono la rappresentazione, in cui le
«medias ojerías»,
«Dami-mudas» forzano
l'ingresso per raggiungere gli uomini che amano e che vogliono
salvare271.
Davanti al
precipitare della situazione e alla defezione dei sostenitori di
Gonzalo Pizarro all'arrivo del Presidente La Gasca, il secondo atto
si chiude su un fantastico volo per l'aria, attraverso tutto il
palcoscenico, delle due amazzoni e di Trigueno, sostenuto da
Martesia per un orecchio. Carvajal per un momento riprende il ruolo
di gracioso,
ma Martesia predice «en
breves / tiempos tragedias que lloren / los siglos que nos
suceden»
272.
Un ultimo tentativo è fatto dalle due donne per impedire il
verificarsi dei tragici eventi. La regina Menalipe arriva
addirittura a proporre a Gonzalo un governo indipendente dalla
Spagna:
|
Ogni uomo, tuttavia, è attore del proprio destino. Lo stesso Carvajal, con argomenti più rozzi e convincenti, incita anch'egli Gonzalo a proclamarsi re. Tirso insiste sull'argomento, per meglio far risplendere la fedeltà di Pizarro al legittimo —204→ sovrano. Abbandonato da coloro che più lo avevano spinto all'azione, come già l'Inca Garcilaso aveva denunciato274, Gonzalo commenta:
|
E un'aperta accusa all'ingiustizia regia:
|
Sarà proprio questo il commento di Alonso de Alvarado: perché mai le leggi del re giustiziano coloro che maggior gloria hanno dato alla patria? E le sconfìtte e desolate amazzoni innamorate dichiarano che occulteranno i loro domini agli spagnoli e daranno morte a coloro che tenteranno di conquistarli, da Pedro de Ursua al traditore Lope de Aguirre, a —205→ Orellana, quindi scompaiono nella selva. Tra voci misteriose disperanti don Alonso chiude il dramma commentando:
|
Infine un richiamo alla serietà della documentazione storica e una astuta richiesta di indulgenza per l'autore del dramma:
|
Tirso de Molina è maestro nei finali grandiosi, ricchi di drammaticità, senza ricorrere a giochi volgari, a spettacoli truculenti, facendo presa diretta sulla sensibilità dello spettatore. Il suo è un grande dramma umano, in cui gli accusati sono i sentimenti perversi dell'uomo, l'invidia soprattutto, male inestinguibile e fonte prima di disastri e di morte. Un —206→ velo di profonda tristezza si stende su questo finale, dove un innocente è votato alla morte, dove un mondo, quello ispano-peruviano, è vittima di tragici sconvolgimenti, conseguenza della conquista, e quello indigeno, sia pure delle misteriose regioni amazzoniche, sembra ancora albergare l'illusione di potersi conservare indipendente.
Las Amazonas en las Indias
è un dramma convincente, misurato e plausibile negli
atteggiamenti, nelle azioni e nei sentimenti. La mescolanza tra
elementi mitici e fatti storici, o comunque possibili, tra il
meraviglioso e il reale, costruisce un clima magico nel quale si
rafforza l'effetto drammatico. L'America si presenta, nel dramma,
come un giardino dell'Eden in parte calpestato e distrutto per
colpa degli europei, ma dove zone incontaminate permangono ad
esercitare tutto il loro fascino. Non se ne rendono conto gli
spagnoli, presi dalle loro contese, ma le amazzoni sono ben consce
della straordinarietà e della ricchezza del loro mondo, che
utilizzano come accattivante calamita, ma senza successo, verso gli
uomini che amano. Al disopra degli avvenimenti, o meglio, dando ad
essi, per contrasto, maggior rilievo, permane nello spettatore,
oggi nel lettore, la visione della meraviglia americana: estensioni
sterminate di verde, abbondanza di fiumi che dalle Ande corrono
all'Oceano, miniere d'argento e d'oro così ricche da
permettere a chi le possiede di conquistare «a Europa, al Africa, al
mundo / postrando a sus plantas
reyes»
279.
Il discorso relativamente all'ultimo dramma della trilogia richiede alcuni chiarimenti. La lealtad contra la envidia non corrisponde cronologicamente a quanto lo spettatore avrebbe potuto aspettarsi, poiché tratta della prigionia di Fernando —207→ Pizarro in Spagna, dopo che egli in Perù ha vinto e giustiziato il traditore Diego Almagro, il Vecchio. Il drammaturgo è costretto, quindi, a ricostruire fatti storici che già aveva dato per avvenuti nella commedia precedente, ripetizioni indigeste per chi intendesse la trilogia come una successione regolata dalla cronologia. Con ogni probabilità Tirso non aveva questa intenzione e forse l'ultimo dramma fu pensato e scritto indipendentemente dai primi due.
Ciò che colpisce negativamente, almeno chi è a conoscenza della storia peruviana della conquista e delle guerre civili, è l'adesione piatta alle notizie fornite dai cronisti, in particolare ancora una volta a Zárate, alla cui versione dei fatti corrisponde fedelmente quanto riassume al suo pubblico il drammaturgo. Ma questi fatti già li conosciamo, poiché ad essi si è riferito l'autore in Las Amazonas en las Indias. Si tratta, perciò, di una pesante ripetizione.
E tuttavia, il dramma ha momenti di grande efficacia, pur nella ripetizione e nella discontinuità, rivelatori di un artista straordinario, frettoloso, certo, poco attento all'armonia dell'insieme, ma capace di momenti di vera perizia. E il caso dell'inizio del primo atto, che coinvolge immediatamente il pubblico, tra suoni e grida appropriati, nella presentazione di una corrida, che si svolge fuori scena, oltre le quinte, ma di cui giunge potente l'eco, e dei successivi «accidenti»: una tribuna che sprofonda, con grande rumore, grida di dolore e richieste d'aiuto, quindi una casa che s'incendia, donne prese dal panico che si gettano dalle finestre ferendosi, mentre il valoroso cavaliere don Fernando Pizarro, montato su un brioso cavallo bianco, non solo ha «rejoneado» il toro con successo, da par suo, ma interviene sollecito a salvare dalla furia dell'animale e dall'incendio Isabel, la dama di cui è innamorato.
Lo spettatore
assiste a questi fatti non con la vista, ma con l'udito -e forse,
per quanto riguarda l'incendio, anche con —208→
l'olfatto, non è azzardato supporlo-; tutto si
realizza fuori della scena, nello spazio misterioso dove tutto
è possibile. Personaggi e animali sono suggeriti
efficacemente dalle esclamazioni e dal racconto di Obregón e
di Cañizares, che dal palcoscenico seguono, volti verso il
fondo, quanto il pubblico non vede -ma che è suggerito dai
rumori e dai suoni: «Tocan dentro chirimías y trompetas,
como en la plaza cuando hay toros; silbos y gritas
[...]»
280-
e lo illustrano e commentano, con tale efficacia da dare
concretezza di reale all'immaginario. La comparsa di Fernando
Pizarro, «como que se apea
de dar el rejón, y con hábito de
Santiago»
281,
rafforza la credibiltà di quanto descritto dalle parole dei
due personaggi e così pure il secondo momento, che
chiameremo della disgrazia: l'incendio della casa, se ora l'eroico
cavaliere compare reggendo «desmayada, en brazos, a doña
Isabel»
282.
Siamo alla terza scena della prima Jornada e la commedia ha posto
ben fermi i pilastri sui quali si reggerà.
Ora, tutto il primo atto svolge il tema dell'innamoramento, complicando abilmente le cose: don Fernando è innamorato di Isabel, ma lo è anche don Gonzalo de Vivero. Senonché nella casa dei nobili Mercado due sono le donne da marito, Isabel e Francisca, ed entrambe guardano all'eroico personaggio che ha salvato la più vecchia, si fa per dire, delle due, e nessuna, amore o non amore, intende rinunciare a lui. Il povero don Gonzalo si dispera; vuol sapere a quale delle due donne mira don Fernando, che offeso non glielo rivela. Ma don Gonzalo, con un sotterfugio riesce a chiarirsi le cose. Con nobiltà di cavaliere, don Fernando, credendo di essere stato legittimamente —209→ preceduto nel cuore di Isabel, dichiara di farsi da parte, ma don Gonzalo, altrettanto nobilmente, gli rivela il suo stratagemma e che nessuna precedenza può vantare. Pone fine alla gara esemplare l'affermarsi di una grande amicizia e don Gonzalo chiede di essere accettato dal Pizarro tra i suoi uomini, ora che, per comando del re, si accinge a far ritorno in Perù, dove il fratello don Francisco è in difficoltà.
Mentre la complicata schermaglia si svolge, Tirso ha modo, attraverso i vari personaggi, uomini e donne, di ricostruire la storia della Spagna imperiale, della quale celebra le imprese -tra esse quella di Pavia, dove fu fatto prigioniero Francesco I re di Francia-, tesse le lodi del marchese del Vasto, esalta il valore, l'onorabilità e anche la pazienza dei Pizarro, in particolare di don Fernando, e proprio, in questo caso, a far più convincenti le argomentazioni, attraverso le parole di don Gonzalo, per il momento ancora nemico geloso, ma che, partito con lo scherno, non può concludere che con una involontaria ammirazione.
Non parliamo poi
delle donne! doña Francisca lo definisce un
«Alejandro segundo», e per
di più altruista se «conquistando un nuevo mundo / se le dio a su
emperador»
283.
Il rapido riassunto non permette di rilevare le molte bellezze
dell'arte, la raffinatezza barocca delle metafore, la dolcezza dei
versi, quando il tema è l'amore.
Nella prima
Jornada l'America è sullo sfondo, ma nella seconda essa
assume il ruolo che le compete in un dramma «americano». E subito
è uno scenario di battaglia: «Tocan a guerra cajas y
clarines; batalla dentro y fuera, entre indios y
españoles»
284.
Ed ecco l'eroe: «Sale
don Fernando, con rodela —210→
y espada desnuda»
285,
incitando, con un richiamo patriottico -di sicuro effetto sul
pubblico-, la sua gente a combattere e a vincere contro un nemico
sproporzionatamente più numeroso:
|
Siamo al Cuzco,
assediato da uno stuolo di indios dell'Inca Manco, deciso a
riconquistare il potere, approfittando delle discordie tra Pizarro
e Almagro. Con insistenza Tirso tratta qui il tema della fama,
sottolineando la nobiltà d'animo dei Pizarro. Mentre
Francisco è a Lima, i tre fratelli, Gonzalo, Fernando e
Juan, combattono al Cuzco, avendo radicata la convinzione che si
tratta di una «justa
guerra», nella quale i loro nomi saranno
immortalati, e alla base della loro azione un solo imperativo:
«morir por la honra y por
la fe primero»
, come dichiara
Fernando287.
Nell'impari lotta
intervengono fatti miracolosi e subito la scena si esalta nel
magico cristiano. D'improvviso compare l'apostolo Santiago, come
nella battaglia di Clavijo contro i —211→
mori, scendendo da una nube, a cavallo e armato
«como le pintan»; un
«Viracocha del cielo», lo
interpreta l'Inca, che «con
milagrosas señales / llega atropellando nubes / sobre un
bruto que, de nieve, / es rayo en lo airoso y
leve»
288,
e mette in fuga gli indios. Il povero sovrano lo interroga
angosciato:
|
Da
«dentro» tutti gridano: «El Apóstol
Santiago / nos da favor»
290.
Ma le apparizioni
miracolose non sono finite, ed ecco la Vergine apparire a spegnere
il fuoco sulla città incendiata: «Nuestra Señora,
con una limeta de agua -recita la didascalia-, se aparece rociando
las llamas y volando por encima de los
muros»
291.
Il palcoscenico doveva essere ampio per permettere tali mirabolanti
interventi. L'effetto scenico era senza dubbio grandioso. L'Inca
è colpito dalla meravigliosa bellezza e dalla luce che
diffonde la straordinaria creatura, «Aurora viva», e Fernando
—212→
Pizarro, ossia Tirso, coglie l'occasione per ribadire la
missione redentrice della Spagna in America e in essa il diritto
ispanico al suo possesso:
|
Con sapiente
alternanza di toni, alla felicità della vittoria e del
constatato aiuto divino succede la nota del dolore per la morte del
giovane Juan Pizarro, «[...] el más gallardo mozo / de la
primavera humana»
293.
Ferito precedentemente alla testa, egli non aveva voluto
allontanarsi dalla battaglia. Sono le vicende della vita: «[...] ¡oh vana /
esperanza de los hombres!»
294,
richiama efficacemente don Gonzalo de Vivero; ma tutto è
interpretato come disegno di Dio, a sua maggior gloria e ad
esaltazione, al contempo, dei Pizarro. Infatti, don Fernando supera
il dolore per la perdita del fratello interpretando il triste
evento come un segno dell'alto, impegnato —213→
ad accrescere in dimensione celeste la fama della famiglia,
che ora, attraverso Juan, nuovo martire della fede, conquista
addirittura il cielo.
La scena conclude con la sepoltura del giovane Pizarro e la successiva, la VII, si apre su personaggi e temi atti a ridare respiro al pubblico con toni «leggeri», il personaggio Castillo, un soldato, è alle prese con l'india Guaica, che lo supplica piangendo di risparmiare l'innamorato; dopo vari giochi di parole, insistenti sulla illibatezza o meno della giovane e inevitabilmente umoristici, ma di un umorismo grossolano e corrente, come si conviene al personaggio, tale da avere effetto immediato sugli spettatori, l'india riesce ad avere ragione del soldato, e anzi, alla ricerca di un promesso tesoro nascosto nel pozzo, riesce a farvelo cadere. Altri soldati, predatori e disonesti persino con il quinto reale, ricercano nel pozzo il loro bottino, ma Chacón, che vi si è fatto calare, è afferrato alle gambe da Castillo che, ritenuto il diavolo, provoca in lui panico; fattosi tirar su dal pozzo in tutta fretta, l'urlante Chacón e i suoi compagni si danno alla fuga, lasciando Castillo felice padrone del tesoro e ammaestrato ormai circa la fiducia che si può dare al pianto delle donne.
La pausa vale egregiamente a riproporre considerazioni più serie, quelle di don Fernando Pizarro che, riflettendo sulla sorte del fratello defunto, costruisce, o meglio conferma, la propria dimensione umana, una filosofia della vita come esperienza negativa, annuncio di quello che sarà il suo ingiusto destino. Tirso non dimentica di essere frate e, mentre costruisce il personaggio, diffonde la sua dottrina religiosa, che afferma sfiducia nel mondo, nel Palazzo e nelle istituzioni, una sfiducia radicata nella letteratura castigliana, a partire dal Cantar de Mío Cid e dal Rimado de Palacio, ma che pure aveva direttamente esperimentato. Per il fratello, Juan ha raggiunto ormai un regno privilegiato, ben diverso da quello di —214→ questa terra, dove ancora don Fernando si aggira, si direbbe già conscio di quanto sta per accadergli. Egli stesso celebra la felice sorte del defunto:
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Sarà la contesa con Diego de Almagro, il Vecchio, congiurato con Finca per divenire re delle Indie, la prigionia e il riscatto, la successiva sconfitta, giudizio e morte di Almagro, che la storia ci tramanda, e quindi la protesta con cui si apre la terza Jornada del dramma, dove troviamo don Fernando in Spagna, prigioniero nel castello della Mota, di cui è Alcaide don Alonso de Mercado, il padre di Isabel. Ed è proprio Isabel che sottolinea, all'inizio della Jornada, l'ingiustizia:
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In realtà
Francisco Pizarro era stato il vero conquistatore del Perù,
ma Tirso qui lo elimina di proposito, per far ricadere tutta la
gloria sul vittorioso rivendicatore della dignità
marchionale. La nobile figura di don Fernando, se prima aveva avuto
risalto, non solo per il valore dimostrato, ma per il contrasto
insistito con l'indegnità, anche di nascita, del traditore
Diego de Almagro, definito «hijo de la piedra»
,
«mercader»
, uomo
«de bajo
nacimiento»
297,
acquista una luce intensa di martirio. Egli è la vittima
prima dell'invidia, male dell'umanità, che non sopporta chi
si distingue. Se ne lamentava, tra i molti, nell'ambito americano,
anche suor Juana, e con ragione, nella sua Respuesta a Sor Filotea. E chi
del pubblico non aveva, o riteneva di avere, la sua personale
esperienza?
La Jornada finale è densa di avvenimenti e di notizie che giungono dall'«altro mondo», non più presenza mitica ed esaltante, ma territorio oscuro e infido. L'America è qui una realtà lontana, che si fa viva solo per la disgrazia; infatti da essa giungono a don Fernando solo echi negativi, oltre al ricordo di imprese valorose, che tuttavia gli fruttarono solo la prigionia. Tirso pone in rilievo che i tempi sono cambiati anche in Spagna: al César Carlo V è successo un re guardingo, Filippo II, che nulla sembra sapere dei Pizarro, e che con calma -una calma esasperante, se si prolunga per anni- assume informazioni circa i fatti addebitati a don Fernando. Nel frattempo —216→ il prode conquistatore è vittima dei partigiani di Aimagro e di infidi cortigiani. Ad essi si oppone il fedele don Gonzalo Vivero, con eroica prova di amicizia.
Dall'America giunge la notizia non solo dell'assassinio del marchese don Francisco da parte dei partigiani di Diego Aimagro, il Giovane, ma della ribellione e successiva sconfitta e morte sul patibolo di don Gonzalo Pizarro. Ribellione al re che don Fernando sente disperatamente come macchia infamante per la sua casa. A lungo Tirso insiste sulla lamentazione dell'eroe e sulla condanna che egli fa del fratello ribelle. Ma notizie più attendibili acquietano la sua disperazione: il drammaturgo torna a legittimare l'operato di don Gonzalo e ribadisce l'esistenza di una «cédula» dell'imperatore, nella quale si stabiliva che nel governo del Perù doveva essere proprio don Gonzalo il successore del fratello assassinato.
Nella movimentata realtà storica viene anche ripresa la vicenda d'amore, riallacciando cosí il terzo al primo atto: doña Francisca è sempre innamorata di don Fernando, ma costui s'è unito in segreto con doña Isabel, che anzi attende un bambino, cosa che gli rivela sul punto di ritirarsi in convento, per non assistere all'ultimo atto della prevedibile tragedia. Sarà una bambina, e toglierà ogni disturbo alla successione; se la terrà felice il nonno castellano, che anzi, ormai assolto don Fernando, e morta quasi provvidenzialmente doña Isabel, lo incoraggia a sposare la nipote, doña Francisca, giunta dal Perù, dando cosí felice inizio alla nuova discendenza.
E la povera sorella di Isabel? Non sia mai che venga abbandonata: il generoso don Fernando propone, infatti, che essa sia premio per l'amico fedele don Gonzalo Vivero, il quale ben felice accetta, e felice sembra anche lei, poiché, in sostanza, l'importante è trovare marito.
—217→Tutto finisce bene, quindi, e si dimostra, secondo le parole del castellano, come la lealtà vinca sempre l'invidia:
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Ha termine così la trilogia dei Pizarro, che corona compiutamente il proposito dell'autore, assolvendo in pieno alla committenza. Ma certamente Tirso doveva essere attratto dal destino singolare dei quattro conquistatori della famiglia, tre dei quali periti tragicamente nelle Indie favolose, dove avevano acquistato fama e ricchezza, mentre l'ultimo era stato sul punto di avere la stessa sorte e di por fine a una schiatta di eroi, come indubbiamente doveva considerarli il frate mercedario per l'eccezionalità delle imprese, vantaggiose non solo per la Spagna, ma. soprattutto, secondo le sue convinzioni, per la fede cristiana. In essi egli vedeva, inoltre, la profonda lezione dell'instabilità della fortuna, l'opera perniciosa dell'invidia, e trovava la conferma, una volta ancora, di come la vita dell'uomo sia legata al filo, che non le Parche, ma Dio tiene nelle sue mani299.
—[218]→ —219→
Nonostante la grande fortuna del teatro di Calderón de la Barca nel Perù del secolo XVII, soprattutto dei suoi autos sacramentales300, l'America sembra avere destato scarso interesse nel grande drammaturgo spagnolo. Christopher F. Laferl sostiene che la ridotta presenza dell'America nelle lettere spagnole del Siglo de Oro è dovuta probabilmente anche al fatto che la maggioranza dei contemporanei non si rese ben conto di che cosa significasse la scoperta del Nuovo Mondo, più interessati agli avvenimenti europei in quanto ad essi più vicini301. Ciò, del resto, era avvenuto anche in Italia, almeno per quella del Sud, di fronte alla scoperta colombiana, ed era per l'epoca giustificabile. Ma per la Spagna, in tempi piuttosto brevi, l'atteggiamento cambiò, dominato prima dall'immaginario fantastico, poi dal meraviglioso reale delle enormi ricchezze minerarie, prima del Messico, poi del Perù.
—220→Tuttavia, per
quanto attiene al teatro, se consideriamo lo sterminato numero di
testi, colpisce il fatto che ben pochi di essi siano ambientati in
America, o trattino temi americani, ed è certo, per quanto
riguarda Calderón, che la sua attenzione sfociò nel
solo dramma de La
aurora en Copacabana, del 1661, pubblicato nella Parte Cuarta delle sue
commedie nel 1672, non certo una delle realizzazioni migliori del
suo vasto repertorio. Che cosa spingesse il drammaturgo a scrivere
l'opera in questione non sappiamo; forse l'impegno di apostolato,
come suggerisce il Valbuena Briones, il quale vede nel dramma,
proprio per questo, una forte unità, un «vigoroso
conjunto»
302,
al quale dà il significato di un valido «auto mariano», quale
è senza dubbio per il tema303.
L'argomento non era nuovo: lo aveva trattato Tirso de Molina, come s'è visto, in uno dei drammi della trilogia pizarrista, La lealtad contra la envidia, e le fonti di riferimento sono le stesse: le cronache delle Indias relative al Perù, in particolare la seconda parte dei Comentarios Reales dell'Inca Garcilaso304. Questo per quanto riguarda l'apparizione e l'intervento della Vergine in favore degli spagnoli assediati dagli indigeni nel Cuzco in fiamme.
La aurora en Copacabana
presenta scenari e tempi diversi della conquista spagnola del
Perù e della diffusione del culto della Vergine di
Copacabana, santuario presso il lago Titicaca, già tempio
del Sole. Quanto alla conquista, Calderón
—221→ sposa appieno la tesi della
prowidenzialità della stessa, ai fini della salvezza dei
pagani. Pizarro, Almagro e Candía fanno la loro prima
comparsa di esplorazione (1526) promettendo già il riscatto
in questo senso delle popolazioni immerse nell'idolatria. Appena
affacciatisi al mondo peruviano se ne vanno, non senza aver prima
raccolto «algunas
señas, bien como / frutas, árboles o
hierbas»»
che, «allá», nell'Europa,
non esistevano, lasciando però chiari segni della loro
venuta, «de que aquí
/ llegamos»
, promessa di un prossimo
ritorno; si tratta di una rozza croce che innalza sulla terra
«barbara» Candía, cui appartiene l'idea,
premessa di un programma futuro:
|
La posizione di Calderón è chiara, come chiara è la sua mancanza di simpatia, o se vogliamo, di sensibilità nei confronti del mondo indigeno, diversamente da Lope, forse altrettanto indifferente di fronte al suo destino tragico, ma meglio disposto spiritualmente e incline anche ad una sdrammatizzante nota umoristica quale si coglie nel Nuevo Mundo descubierto por Cristóbal Colón. Ne La aurora en Copacabana, invece, Calderón raggiunge scarsi risultati anche nello humor. La funzione di gracioso riservata a Teucapel, e a Glauca, non riesce nello scopo: si tratta sempre di un umorismo forzato, o comunque poco efficace. La presentazione, poi, del mondo —222→ indigeno è superficiale e mantenuta nell'ambito di un fofe clore appiccicaticcio, di maniera: canti e danze in onore deli l'Inca Guàscar, già in lotta col fratello Atabalipa.
In sostanza, gli
indigeni sono presentati come esseri inferiori rispetto agli
spagnoli e di tutto si stupiscono, con ragione della nave che
appare presso la costa -«un
escollo que navega»
, un «aborto de mar y
viento»
, «gran pez cuando nada, /
y pájaro cuando vuela»
-, del colpo
di cannone, ma anche -eppure mare e fiumi li avevano, e sapevano
navigare- della scialuppa, vista come parto del mostro-nave
-«de su vientre arroja
otro menor»
-, sulla quale Candía si
reca a terra per piantare la croce. Che invece si stupiscano degli
uomini, bianchi di pelle e con barba, non fa meraviglia, ma nessuno
di questi elementi è così efficace da dare un
particolare risultato artistico a questa ennesima dimostrazione del
potere della croce, se non quando improvvisamente interviene il
fantastico sacro.
La croce, infatti,
compie il miracolo di ammansire le fiere che gli indigeni hanno
aizzato contro gli stranieri, in realtà solo il povero
Candía, unico sbarcato per assolvere al suo compito. Lo
spagnolo rimane impressionato, e favorevolmente, s'intende, per la
mansuetudine inconsueta delle belve, dopo aver visto con terrore
che «mil feroces
animales / toda la marina pueblan»
.
Più limitatamente, recita la didascalia, «Salen un leóny un tigre»
; essi
vanno prostrando ai piedi del terrorizzato conquistatore «las nunca domadas
testas»
. Miracolo di Dio, cui il
conquistatore corrisponde innalzando la croce:
E, infatti,
«Sube a lo alto del monte»
. Il miracolo
della croce è segno del favore di Dio, della sua benedizione
all'opera ispanica di conquista in nome della fede.
Di fronte a tanto potere del Dio cristiano reagisce l'Idolatria, minacciando finca di rivelare l'imbroglio con cui il remoto antenato, da lei favorito, ha fatto credere che il proprio figlio, cresciuto in segreto, fosse figlio del Sole, dando origine alla presunta schiatta divina. In questo si vorrebbe vedere un possibile preannuncio del Cristo, tra popoli a suo tempo ritenuti, con molta fantasia, oggetto della predicazione dell'apostolo Tommaso.
Gli indigeni
rimangono stupiti davanti al portento della croce, in particolare
il nobile Yupanguí, al quale, improvvisamente come
paralizzato, cade di mano l'arco, effetto di quel «Tronco»
che emette
raggi e «a puras
luces»
lo accieca, per cui «más es que
tronco»
.
L'intervento del portentoso sacro dà vita al dramma, nel quale interviene anche un combattuto amore, di Yupanguí e dello stesso Inca, per la bella sacerdotessa Guacolda, vergine destinata a essere sacrificata al dio Sole. Ma la storia sentimentale, in sé sfuocata, che dovrebbe finire con il sacrificio della giovane, vale soprattutto a evidenziare la diversità crudele del dio indigeno di fronte alla bontà del Dio cristiano, il quale si è sacrificato per salvare gli uomini, mentre il Sole esige sacrifici cruenti. Guacolda, trovatasi ad espiare una colpa non sua -la vendetta del padre, seguace di Atahualpa, contro Yupanguí, rimasto con Guàscar-, reagisce drammaticamente al suo destino e pone un fondamentale problema all'innamorato:
—224→
|
Il predominio vittorioso della croce è già evidente. Il mondo indigeno non può che arrendersi davanti alla bontà del Dio cristiano. La conseguenza immediata è che Yupanguí decide di disubbidire sia allinea che al Sole. Si chiude così la prima Jornada del dramma. Ma vale ancora la pena di sottolineare positivamente -già lo ha fatto Kathleen N. March306- la soluzione felice del problema della comunicazione tra spagnoli e indigeni: nel loro incontro Candía e Yupanguí parlano ognuno, in castigliano, un proprio linguaggio, reciprocamente incomprensibile, ma non al pubblico, che tuttavia può apprezzare le difficoltà con cui si realizzò la comunicazione tra due mondi così diversi. Merito non indifferente di Calderón per alcuni critici, ma non v'è dubbio che la presenza di qualche vocabolo americano ormai entrato anche alla lingua dei dominatori, avrebbe reso in modo più convincente l'ambito in cui la vicenda si svolge. Il confronto con El Nuevo Mundo di Lope, lo rende evidente.
La seconda Jornada
ha per scenario il Cuzco. Siamo nel 1536, la conquista è
ormai un fatto concreto, e con essa l'evangelizzazione. Gli
spagnoli, vinta la resistenza degli indigeni, entrano in Cuzo, ex
capitale dell'impero incaico, ma le truppe di Guàscar giunte
di rinforzo riescono a porre in situazione disperata i
conquistatori assediati, appiccando il fuoco —225→
con frecce incendiarie ai tetti delle case. Nella terribile
situazione gli spagnoli invocano la protezione della Vergine, che
li soccorre, spegne il fuoco «lloviendo copos de nieve
/ y rocío»
, e accieca gli assediami
con «un suave polvo /
de menuda arena blanca»
. Ne viene
disorientamento e stupore nel campo nemico; lo stesso Inca è
toccato nel profondo.
In sintesi, questo è ciò che presenta il secondo atto del dramma, ma qui occorre sottolineare l'affermarsi di una straordinaria atmosfera poetica, che di colpo riscatta tutto il dramma, al segno del meraviglioso divino. Che già si annuncia nel destino di Pizarro, quando caduto da un'alta scala ne esce illeso. Si tratta, in realtà, di un falso storico, poiché fu invece il fratello minore, Juan, ad essere ferito e a morire. Ma la verità storica non ha rilevanza in un'opera di fantasia, dove domina incontrastata la libertà dell'artista.
Ciò che invece va sottolineato nella seconda Jornada de La aurora en Copacabana è la nota ispirata di religiosità con cui Calderón celebra la Vergine. Egli non si accontenta di presentarne il miracoloso intervento, ma nelle invocazioni degli spagnoli che si vedono perduti rappresenta la tensione di una fede ardente, per la quale Maria è celebrata non solo come vergine immacolata, ma come misericordiosa ausiliatrice, secondo la tradizione, di profonde radici nella religiosità ispanica. Di Maria il drammaturgo fa la protettrice della conquista, come si esprime Pizarro, che la vede già presente nell'assoggettamento della Nueva España, anche se, secondo Bernal Díaz del Castillo, era piuttosto Dio stesso a intervenire in favore degli spagnoli307.
—226→Ribadito da parte di Almagro che la conquista del Perù avviene per la propagazione della fede e l'onore di Maria, appare naturale l'intervento della Vergine. In musicale concerto si diffonde il canto degli angeli:
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La rappresentazione è di un fine barocchismo e richiama affermate allegorie pittoriche. Recita la didascalia:
Suenan chirimías, y baja de lo alto una nube en forma de trono, con varios SERAFINES Y DOS ÁNGELES que traen la imagen de Nuestra Señora de Copacabana, con el Niño en las manos; y al tiempo que empieza a descubrirse, y todo lo que dura el paso hasta desaparecerse, estará nevando la nube. |
Ciò che maggiormente rende il meraviglioso sacro è il commento della parte contraria, quella indigena pagana. L'Inca, profondamente colpito dall'evento, sottolinea gli effetti improvvisi dell'intervento mariano, che spegne l'incendio con neve e rugiada, ma il nobile Yupanguí descrive con efficace senso pittorico e raffinato cromatismo, ispirato più che «pasmado», la singolare e misteriosa apparizione:
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Non si tratta solo di desrizione pittorica, bensì di movimento. Eattenzione dello spettatore è attratta dall'apparizione, dalle figure, dai colori e dai simboli, ma in particolare da un movimento dinamico d'insieme. Chiarisce la didascalia:
Va pasando la nube con la imagen y los ÁNGELES, y salen oyendo las voces como elevados, PIZARRO, ALMAGRO, CANDÍA Y ESPAÑOLES. |
Una complicata macchinarla doveva permettere questo singolare movimento elevatorio, rendendo visibile e «tangibile» il miracolo, che certamente contribuiva in modo eccellente ad acquietare gli scrupoli degli spettatori, quando mai li avessero avuti, nei confronti della conquista, se gli angeli spronavano alla stessa come avvio di tempi nuovi per l'America, quelli della fede cattolica. Un angelo, infatti, richiama l'attenzione degli assediati sull'evento; un altro li sprona:
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La coppia angelica unita prosegue, accompagnata dalla musica:
—228→
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Calderón si avvaleva spesso, nelle sue opere, dell'accompagnamento musicale per dar respiro e grazia alla rappresentazione. L'effetto scenografico è esaltato, nel dramma, dal canto e dalla musica, con un risultato emotivo che doveva propagarsi direttamente agli spettatori, mentre ancora rapiti assistevano all'improvvisa scomparsa dalla scena, per «elevazione» miracolosa, dei personaggi parte del quadro. Grande abilità di Calderón, padrone di un «mestiere» nel quale era indiscutibilmente maestro.
Il clima finisce
per essere tutto diverso, come invaso dal miracoloso e penetrato da
una forza ormai invincibile: quella della fede trionfante.
Calderón non si limita, ne La aurora en Copacabana, a svolgere il tema
mariano, ma riprende anche i miracoli della croce, ricollegandosi
al primo atto, attraverso la vicenda di Guacolda e di
Yupanguí. L'Inca è scosso dal portentoso evento e in
un estremo tentativo di placare il Sole decide di sacrificare sia
Guacolda che Yupanguí che lo ha tradito; ma l'una si
abbraccia alla croce, l'altro al platano, simbolo di Maria, e
nessuno riesce a saccarli, né a ucciderli. Guáscar
constata così l'impotenza del suo dio, mentre l'Idolatria
vede la sua prossima, definitiva sconfitta constatando che «mejor sol en brazos / de
mejor aurora nace»
, e irata minaccia
apocalittiche distruzioni.
Si chiude
così la seconda «Jornada», la più
interessante e valida di tutto il dramma. La terza non presenta che
scarso interesse. Nuovamente Calderón compie un salto
temporale: la scena è posta, infatti, in un Perù
ormai convertito, ai tempi del viceré don Jerónimo de
Mendoza, conte di La Coruña. I personaggi attivi nei due
atti precedenti, Guacolda e Yupanguí, ora sposi, hanno
assunto nomi cristiani e sono entrati in un clima diverso, scadendo
dalla loro primitiva condizione. Sono infatti due normali villici,
mentre prima, nel mondo indigeno, appartenevano a una categoria di
rilievo, la nobiltà. La conquista, è noto,
livellò verso il basso le antiche dignità del mondo
indigeno. Ricordiamo, per quanto concerne la Nueva España,
la denuncia scandalizzata di fra Toribio de Benavente, di fronte a
gente ispanica di bassa origine, per la maggioranza
«labradores», che «hanse enseñoreado
de esta tierra y mandan a los señores principales naturales
de ella como si fuesen sus
esclavos»
308.
Guacolda, in particolare, prima fanciulla attraente, aureolata oltre che dalla nobiltà delle origini, dalla condizione di sacerdotessa del Sole e dalla situazione di vittima sacrificale, è ora una semplice contadina e Yupanguí un capo di confraternita, impegnato a scolpire una statua della Vergine con bambino, quale apparve, a lui e a tutti, in occasione dell'incendio del Cuzco. Senza arte né parte, è naturale che il prodotto sia rozzo e quindi inaccettabile per il santuario di Copacabana; ma egli insiste, disposto a impiegare i suoi pochi averi -la conquista ha impoverito il mondo indigeno e anche a servire gratuitamente per un anno, se necessario, —230→ il doratore di La Paz, pur di abbellire la sua povera opera. La Vergine lo premierà con un intervento miracoloso; infatti angeli abbelliranno la statua, suscitando l'ammirazione di tutti e dello stesso viceré, che si era impegnato a fornire le due corone. Senonché la corona posta sulla testa del bambinello occulta la vista del volto della madre e tutti se ne rammaricano; ma la Vergine sposta il braccio, tra l'ammirazione di tutti, ed elimina l'inconveniente.
Storia più
assurda Calderón non poteva inventare309,
ma certo gli spettatori, devoti ardenti si suppone, dovevano essere
entusiasti, come se ne mostrano gli attori, specie i due sposi,
passati attraverso tante avventure, ora felici nella fede di un Dio
che, ribadisce Guacolda, «primero que yo muera / por él, ha
muerto por mí»
. Poco ci manca che si
assista alla conversione della stessa Idolatria, tanto è
ormai scoraggiata constatando quanto le radici della fede sono
penetrate nel mondo indigeno. Sulla fine della terza
«Jornada» il dramma torna a riscattarsi, come era
avvenuto nel secondo atto, con il trionfo di Maria. L'apparizione
della statua che gli angeli affinano, come esperti pittori,
proietta luce e colori sulla scena, mentre risuonano canti
angelici, accompagnati dalla musica. Suggerisce l'autore:
Tocan chirimías, córrese la cortina, y vese en un altar adornado de luces y flores la imagen dorada, y al mismo tiempo en dos apariencias, que llaman sacabuches, bajan DOS ÁNGELES, con paletas, colores y pinceles en las manos; y mientras ellos cantan y toda la MÚSICA responde dentro, van tocando LOS ÁNGELES la imagen, y ella se va convirtiendo, como mejor pueda ejecutarse, en una —231→ imagen de nuestra Señora con el Niño Jesús en los brazos; la más hermosa, adornada y vestida que se pueda, que será aquella misma que se vio en la apariencia del incendio y de la nieve. |
Calderón realizza a sua volta un miracolo, rendendo magistralmente, in una fusione di parola, canto, musica e movimento, il lavoro degli angeli pittori, fino al risultato finale e all'invito:
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Nasce così,
per la fede, con «mejor sol / la aurora en
Copacabana»
. La data in cui l'immagine
delle Vergine fu posta nel santuario era il 2 febbraio 1583.
All'arte il dramma calderoniano, che termina con una processione
rischiarata dalle candele dei devoti, non apporta che limitati
contributi, anche se corrisponde perfettamente allo spirito con cui
l'autore interpretava il riscatto alla religione cattolica del
mondo americano310.