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Riflessioni su «La hija del aire» di Calderón

Rinaldo Froldi





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La hija del aire, «gran comedia» rappresentata nelle sue due parti, nel 1653, nel Coliseo di Madrid alla presenza dei sovrani Filippo IV e Marianna d'Austria e di un ampio pubblico di cortigiani1, non godette di molta fortuna sulle scene spagnole. Soltanto nell'Ottocento, quando i romantici tedeschi la riscoprirono2 e ne curarono alcune traduzioni e rappresentazioni, si aprì una stagione critica particolarmente benevola che sembrò interrompersi in Spagna, quando nel 18813 Menéndez Pelayo non l'ebbe a criticare severamente giudicando l'opera retorica, arbitraria e capricciosa. Dopo di che seguì un lungo silenzio.

La riconsiderazione de La hija del aire cominciò con le pagina di Bergamín4 e di Montero Díaz5 che aprirono la strada agli studi di Valbuena Prat6 e di Valbuena Briones7. Tali studi si svilupparono successivamente negli apporti della scuola inglese, con Parker che giunse a considerarla il capolavoro di Calderón8 e con l'allievo suo Gwynne Edwards che ne fece argomento della tesa di laurea (1961) e poi di due importanti saggi9 per poi pervenire all'edizione critica10.

La scuola inglese ha inserito La hija del aire nell'ambito della sua valutazione entusiastica ed, a mio parere, talora eccessiva, del carattere tragico di tanta parte del teatro di Calderón.

Ottimo continuatore di questa visione critica è stato lo spagnolo Ruiz Ramón al quale va riconosciuto innanzi tutto il merito di aver promosso e realizzato una rappresentazione del dramma curata dal Teatro Nazionale María Guerrero nel 198111. Particolare importanza ebbe la rappresentazione al Festival di Almagro perché accompagnata da un vivo dibattito critico di cui è rimasta documentazione12. Ruiz Ramón, per l'adattamento del testo, e Lluis Pasqual, come regista dello spettacolo, hanno realizzato una loro idea di fondo, che cioè il teatro cosiddetto «classico» debba necessariamente essere adattato al nostro tempo per essere compreso dal pubblico moderno, convinti che il teatro è un fatto vivo che nasce e muore quando si attua sulla scena e che pertanto può essere solo «contemporaneo».

Convinti dell'essenza tragica dell'opera13 e che come tale dovesse essere interpretata modernamente i curatori hanno proceduto alla riduzione delle due parti del dramma a una sola, condensando i 6730 versa originari a meno della   —2→   metà (circa 2800), sopprimendo la parte mitologica (ma non la mitica, come afferma Ruiz Ramón). Inoltre l'azione viene concentrata su Semíramis e sull'inesorabilità di un destino che le deriva dall'origine nefasta della sua nascita (stupro e morte della madre) che crea vittime attorno alla stessa protagonista (Menón e Nino), sul conflitto fra l'ansia di libertà dell'infelice eroina contro il vaticinio funesto e, infine, sulla sua sconfinata ambizione che prima la conduce al potere e poi la porta alla caduta finale. La «tragedia» nella riduzione operata, si chiudeva con la morte della protagonista, sopprimendo la conclusione che al dramma aveva dato il suo autore e cioè il ritorno al trono di Ninias, figlio di Nino e legittimo erede, che ristabilisce l'ordine. A giudizio dei curatori, tale finale sarebbe stato suggerito da preoccupazioni esteriori e pertanto nella moderna adaptación14 doveva venire eliminato: in tal modo, la conclusione non sarebbe quella scritta da Calderón ma quella ritenuta «implicita» in Calderón.

Non sembra che il dramma sia stato ripreso sulle scene dopo le rappresentazioni del 1981 e ciò conferma lo scarso interesse che la critica e il pubblico spagnolo hanno per il teatro del Siglo de Oro.

Oltre al merito che va attribuito a Ruiz Ramón per aver voluto quella rappresentazione, gli va riconosciuta la benemerenza d'aver suscitato una serie stimolante di dibattiti critici intorno ad un'opera che sembrava condannata al silenzio dopo la ripulsa di Menéndez Pelayo. Mi riferisco ai numerosi saggi pubblicati dopo il 1981, secondo diverse direttive critiche, vuoi sul piano filosofico e psicologico, con attenzione sia al mito che alla simbologia calderoniane, vuoi sul piano metodologico, con analisi di tipo storico o strutturale o semiologico, quasi esclusivamente nel solco di una considerazione de La hija del aire come «tragedia»15.

Mi pare che sia rimasta al margine l'indagine sul testo teatrale di Calderón considerato nella sua storicità, dimenticando aspetti fondamentali come l'ideazione dell'opera da parte di Calderón, la realizzazione voluta dall'autore, l'accoglienza del pubblico che affollava il teatro di corte nel 1653. È rimasto nell'ombra, a mio giudizio, lo studio del testo con relazione al suo ineludibile contesto e alla ricezione dei contemporanei.

La leggenda storica di Semíramis, la favolosa regina d'Assiria, si diffuse nell'età classica, nel Medioevo e nel Rinascimento arricchendosi di molte peculiarità, anche contrastanti. Fu così, di volta in volta, abile regina, valorosa   —3→   guerriera, promotrice di grandiosi opere civili, dama d'elevate capacità ma anche femmina sensuale, perfida e crudele, che faceva uccidere gli amanti dopo averne goduto gli amplessi, capace persino di concupire il figlio Ninias il quale, inorridito, l'avrebbe alla fine uccisa. Altre fonti narrano di Semíramis trasformata in colomba e poi venerata come dea.

Calderón dovette essere a conoscenza di queste diverse tradizioni leggendarie o per averle apprese direttamente nei testi classici, medievali e moderni16 o attraverso la lettura della tragedia La gran Semíramis di Cristóbal de Virués17, opera condotta nei modi di un manierismo caratteristico dell'età che molti identificano come il momento della crisi del Rinascimento, nel clima della Controriforma e sotto l'evidente influsso di Giraldi Cinzio, seguace del gusto senecano per la violenza e l'orrore.

Nella tragedia di Virués, Semíramis, pur valorosa all'inizio quando suggerisce l'accorta strategia per la conquista della città di Bactra, va successi mente corrompendosi: è causa del disperato suicidio dello sposo Menón, cede, per ambizione, al corteggiamento appassionato del re Nino per poi ucciderlo per carpirgli il trono, governa con crudeltà senza rispetto per la giustizia. Accanto all'ambizione senza limiti si scatena una lussuria sfrenata. Si concede a chi le piace ma poi fa eliminare gli occasionali amanti. L'intera azione si svolge in una corte moralmente degradata, dominata dalle passioni di cortigiani adulatori, avidi e vilmente servili. Il climax è raggiunto da Semíramis quando esse si incapriccia anche del figlio che si ribella all'incesto e l'uccide. Questi, a sua volta, inganna il popolo dichiarando che la madre è salita al cielo sotto forma di colomba. Ristabilisce così nel regno l'ordine violato18.

Amara visione del mondo e in particolare del potere identificato con la tirannia, questa del moralista Virués che addita il male per saggerire allo spettatore, per contrasto, la «virtud divina».

Una Semíramis scrisse anche Lope de Vega (il titolo figura nella lista di El Peregrino, 1604, delle opere da lui composte) che purtroppo è andata perduta e non consente pertanto di stabilire un interessante confronto con il dramma di Calderón.

Egrave; assai probabile che don Pedro non abbia avuto notizie di una tragedia italiana e di due francesi che hanno per protagonista Semíramis19; diversamente la regina assira, la sua corte, Nino stesso sono presenti in un'opera di Luis Vélez de Guevara, La Corte del demonio, che Calderón può aver letto senza trarne alcun spunto: in questa commedia, come segnalo in nota, il protagonista è il profeta Giona20.

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Calderón, pur conservando molti elementi della leggenda tradizionale, con libertà e sapiente esperienza drammaturgica, inserisce nella trama motivi originalmente suoi: per esempio, al pastore della leggenda che alleva Semíramis, sostituisce il sacerdote Tiresia, tutore e al tempo stesso rigido custode della donna tenuta isolata in un luogo segreto (evidente analogia con il Clotaldo che custodisce Segismundo ne La vida es sueño); attribuisce alla protagonista un'ansia di libertà che consapevolmente vuole opporsi al malefico destino sotto cui essa è nata; non rinuncia a mettere sulla scena le figure dei tradizionali graciosos protagonisti di battibecchi verbali grotteschi tipicamente entremesiles ma che anche fanno da contrappunto e commento elle vicende (specie Chato) dei personaggi maggiori e neppure rinuncia a creare episodi d'alleggerimento dell'azione drammatica, caratteristici della comedia nueva come gli intrighi amorosi di carattere palaciego della seconda parte. In questo dramma Calderón accoglie, però, anche l'idea di un Fato pagano che qui si configura nella lotta (accennata ma non rappresentata) fra due dee rivali, Diana e Venere. Un critico, Antonio Regalado, di recente e non senza ragione ha affermato che ne La hija del aire «el proceso de mitificación actúa fuera del ámbito cristiano de la fe» il che ha permesso al drammaturgo «urdir una sombría fábula del destino»21.

Indubbiamente, la lotta delle divinità pagane contro Semíramis constituisce un elemento di rigido determinismo. La vita appare delineata all'atto stesso della sua nascita e se ne trova traccia, per chi sa leggerla, nelle stelle.

Può valere la spiegazione teologica da taluni sostenuta (e che è pienamente giustificata in altri drammi di Calderón) della pre-scienza di Dio? Non mi sembra. Anzi, direi che qui, a differenza di quel che avviene in altre opere calderoniane, il problema Fato/Provvidenza22 non è affrontato. Semíramis appare vittima totale di una volontà superiore, anche se, nei momenti iniziali dell'opera, cerca di conquistare l'agognata libertà:


voy a ser racional
ya que hasta aquí bruto he sido


(I, 1, 1005-1006)                


e più avanti, isolata e protetta nella villa di campagna da Menón, sa riflettere sulla sua rinnovata condizione di prigioniera:


mi fortuna
que sólo me saca de una
para darme otra prisión


(I, 2, 1142-1144)                


Ottenuta la libertà fisica (non quella morale) essa cede vittima dell'ambizione. I suoi successivi atti, più che prodotto di consapevole libertà, sono irrazionali,   —5→   solo generati da bramosia di potere.

Semíramis è inesorabilmente decisa nel suo cammino che si svolge nel male, fino alla distruzione. Si è detto che esiste un vero e proprio amor fati: direi ch'ella non s'abbandona al Fato ma lo subisce. Dinamica nelle sue azioni, appare contraddittoria ed insieme costruttiva e distruttiva23.

Calderón non analizza i comportamenti di Semíramis24: sembra tuttavia che da una serie di episodi, venga soprattutto posta in rilievo la vanità della sua esistenza (il che cela una condanna morale implicita), sottolineata da forte suggestione scenica e drammatica tensione capaci di suscitare forti emozioni negli spettatori, impegnati a passare emotivamente da una scena all'altra, attratti da una varietà abbagliante, capace di suggerire molteplici sensazioni e meditazioni.

E innegabile che Calderón rappresenti talora Semíramis con simpatia: ne propone positivamente l'intelligenza, il coraggio, l'astuzia. Fa affiorare persino in lei una possibilità di sentimento quando, per esempio, la mostra gelosa di Licas che ha preferito a lei Libia, o quando accenna a un nascente sentimento d'amore per Friso, anche se poi questo sentimento viene soffocato dalla predominante ossessiva passione per il potere. Ma è un nuovo motivo di contrasto che obbedisce al gusto delle opposizioni tipico dell'estetica barocca. Osserveremo ancora che, nella complessa trama, s'inseriscono anche spunti politici che del resto sono coerenti con la preoccupazione che ebbe Calderón di un suo ruolo sociale come poeta e drammaturgo e con la volontà, specie nell'ultima parte della sua vita, di adempiere alla funzione di consigliere del sovrano: non vi è dubbio che ne La hija del aire traspaia, in forma contenuta e corretta, un monito rivolto ai sovrani presenti in teatro, che suona come decisa condanna d'ogni passione violenta, prima fra tutte la smodata ambizione che, nei potenti, non può che portare a forme d'ingiusta tirannia.

Logicamente, nelle scene finali, successive alla morte di Semíramis, Calderón riafferma il ristabilimento dell'ordine sociale e del sistema dei valori vigenti25, che la «tiranna» Semíramis aveva alterato, mediante il ritorno al trono di Ninias.

La favola antica proposta a un pubblico colto offriva indubbiamente spunti a una serie di riflessioni che dovettero impegnare gli spettatori e i lettori, non certo attratti dalla leggenda mitologica in quanto tale (alle divinità e ai miti pagani nessuno più prestava fede a cominciare dallo stesso Calderón) quanto piuttosto dai valori simbolici presentí nell'opera e capaci di stimolare, attraverso la realizzazione teatrale (parola, allestimento scenico, musiche e suggestioni non sopite degli antichi miti) un'attenzione particolare.   —6→   Calderón ha saputo unificare i diversi componenti con una maestria singolare. Ha fuso elementi tragici, come già s'è osservato, con altri comici e grotteschi, tutti ben congegnati e certamente corrispondenti a una idea di poesia (e di dramma) che un contemporaneo, Pietro Sforza Pallavicino, riteneva dovesse nutrirsi di poetiche favole il cui «unico scopo è quello d'adornare l'intelletto nostro d'immagini, e vogliam dire d'apprensioni sontuose, nuove, mirabili, splendide», benché con la consapevolezza nostra che «queste prime apprensioni belle non sono apportatrici di scienza né manifestatrici di verità»26, rivendicando con intuizione precorritrice un concetto che avrà fortuna e che Calderón già mostra di condividere.

Lo spettatore assiste a una successione di scene diverse che si propongono come tanti piccoli drammi nel dramma che li riassume, governati con mobilità circolare.

Quanto alla morte di Semíramis, bene ha fatto Ruiz Ramón, nella rappresentazione del 1981, a porla come finale conclusione di quella che nella sua moderna adaptación ha considerato una tragedia27. Non penso però che come tale l'avesse concepita Calderón che nel corso dell'opera appare smorzare, piuttosto che esaltare i motivi tragici28. Nella scena della morte di Semíramis fa pronunciare alla protagonista parole che escludono una interiorizzazione, una tragica crisi della coscienza. Essa rifiuta nel suo egocentrismo d'essere stata colpevole delle morti di Menón e di Nino, di aver illecitamente sottratto il trono a Ninias, di aver fallito -in sostanza- un suo positivo ruolo nella società. L'esclamazione finale «...vengados estáis porque muero» (II, 3, 3281) non mi sembra segno d'interiore riflessione e pentimento di fronte a una vita sbagliata, bensì un'ulteriore manifestazione d'orgoglio, di irriducibile presunzione, d'assoluta incoscienza. In fondo, il rifiuto a riconoscere le sue colpe suona come il grido di chi s'era creduta un essere superiore, una divinità. Staccata dalla realtà, non è turbata dal dubbio, da una autocritica redentrice. Non si può parlare nemmeno di grandezza morale di una superiore sfida eroica. Ella riconosce che Diana ha vinto su Venere ma delira sognando un'impossibile vendetta:


que a costa de muchas muertes,
morir bien vengada intento


(II, 3, 3258-3259)                


Quando, infine, deve cedere alta realtà, la sua superba immaginazione29 la trasforma e così crede di non morire ma di sciogliersi nell'aria


Hija fui del aire, ya
hoy en él me desvanezco


(II, 3, 3284-3285)                


Con tale finale, volle Calderón sottrarla al giudizio morale del pubblico,   —7→   come da taluni è stato sostenuto? O ne volle piuttosto suggellare la irriducibile vanità, l'assenza di vera personalità?

In ogni caso sono del parere che l'autore abbia cercato una voluta fuga dalla dimensione tragica, a favore di una dimensione favolistica, come del resto avviene anche in altri episodi del dramma. Tutta l'opera si caratterizza per la meravigliosa evocazione di un mito poetico, sontuoso spettacolo che deve interessare e divertire e che sa equilibrare componenti diverse, affermandosi non solo per sapiente composizione tecnica ma anche per continuo afflato portico. Persino Benedetto Croce che muoveva da una preconcetta avversione al gusto poetico barocco, sottolineava la presenza di alcuni valori lirici, ancorché isolati, mescolati con «altri che obbediscono ad altra legge»30. Tutta l'opera, invece, appare intensamente ispirata31.

Egrave; stato osservato che Calderón tende a fondere la diverse arti, la poetica, la visiva e la musicale, quasi anticipando il concetto teatrale di Wagner che effettivamente riconobbe in Calderón, di cui fu entusiasta ammiratore, un precursore del suo ideale32.

Sulla data di composizione de La hija del aire si sono fatte solo congetture in assenza di documenti probanti. L'Hilborn pensó al 1637, l'Edwards ritenne che le due parti siano state scritte «no long before its performance» che sappiamo essere state nel 1653; Cruickshang è più vicino alla data indicata da Hilborn poiché pensa al periodo 1635-1644 verso il quale propende anche Ruiz Ramón33. Anche per tali motivi, La hija del aire non si può propriamente iscrivere nel novero delle opere del cosiddetto «teatro mitologico» caratteristico dell'ultima produzione di Calderón ma, per molti aspetti, sembra preluderla. Per quanto riguarda la messa in scena non c'è notizia che vi sia stata la partecipazione diretta di Baccio del Bianco che proprio in quegli anni montò due grandi spettacoli «mitologici»: La fiera, el rayo y la piedra nel 1652 e Fortunas de Andrómeda y Perseo, nel 165334. Questo può confermare l'ipotesi che le due parti siano state composte alcuni anni prima, ma certo vi sono già presenti elementi che a quelli si richiamano: il cambiamento frequente d'ambientazione che offre spunto a complesse scenografie -selva, villa, palazzo di Ninive, ed ancora, reggia di Babilonia, giardino di notte, campo di battaglia, reggia-, le variazioni d'illuminazione, contrasti fra scuro e chiaro, il variare del vestiario: c'è persino un cambio in scena quando Calderón direttamente e arditamente presenta Semíramis che si toglie le vesti e indossa quelle maschili del figlio Ninias, i contrasti musicali densi di simbolismi, la ricerca costante dell'admiratio.

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Sul trasfondo del mito antico, che si intreccia con motivi tipici del pensiero calderoniano, sono molteplici gli spunti che accennano la contraddittorietà delle umane vicende e che rivelano la costante preoccupazione del drammaturgo per certi temi a lui cari, senza però esasperare le tensioni: si tratta di una favola drammatica, di un grande spettacolo plurisignificante che rivela la grandezza di Calderón autore e, con tutta probabilità, di scenografo e direttore dello spettacolo ma che sa conquistare il pubblico anche per l'afflato poetico che mai viene meno.

Concludo qui il mio tentativo di procedere ad una lettura in chiave storica del dramma calderoniano che, naturalmente, lascia libera qualsiasi diversa ricezione successiva grazie alla possibilità che ha ogni grande dramma di trovare ricreatori e di trasformarsi, sulla scena, in un'opera nuova.

Nel suo tempo La hija del aire doveva certamente rientrare nella categoria della gran comedia, come allora si definiva. Lungi dal presentarsi come una tragedia, con rutilante impianto scenico, voleva offrire al pubblico di corte la storia leggendaria, eccessiva e strabiliante di Semíramis. Che questo volesse l'autore appare evidente dalle parole stesse di Ninias al quale Calderón affidò il compito del rituale congedo finale dagli spettatori:


de la hija del aire
la historia acaba con esto.


(II, 3, 3380-3381)                






 
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